di Attilio Piovano
Grande attesa a Torino per il concerto di venerdì 15 dicembre 2023, entro il cartellone di Lingotto Musica. In programma il Messiah, capolavoro assoluto del sommo Haendel assente nel cartellone dei Concerti del Lingotto dal 2002.
Si tratta di un vasto oratorio per soli, coro e orchestra, emblematico del suo stile peculiare, teatrale e interiore al tempo stesso, sfolgorante e, dove occorre, attento ai più reconditi e intimisti aspetti del mistero dell’Incarnazione, dunque volto ad evidenziare quella dimensione intima e contemplativa che conquistò per primo il cuore dei dublinesi. Già, perché il Messiah, merita rammentarlo, ebbe la sua prima assoluta il 13 aprile 1742 in occasione di un concerto di beneficenza alla Music Hall di Fishamble Street della città irlandese, all’epoca alquanto defilata, non certo tra le capitali europee della musica. Dalla remota Dublino la fama del lavoro si diffuse poi rapidamente in maniera per così dire esponenziale a partire dalla replica londinese al Covent Garden di pochi mesi dopo.
E allora, quanto al concerto torinese, fa piacere constatare come la programmazione artistica molto opportunamente sia venuta a coincidere con il tempo liturgico dell’Avvento. L’attesa dell’evento era notevole anche, se non soprattutto per gli eccezionali interpreti protagonisti di una indimenticabile performance: dacché, per dar corpo alla «monumentale sacralità» del capolavoro haendeliano, ovvero alle singolari fantasmagorie sonore concepite dal grande Sassone, la direzione artistica di Lingotto Musica aveva convocato in primis due complessi di fama mondiale, ai vertici internazionali per accuratezza filologica e palpitante capacità di ‘restituire’ il lavoro alla sua dimensione primigenia; e dunque l’Akademie für Alte Musik e il Rias Kammerchor Berlin con la direzione dell’esperto Justin Doyle (direttore principale e artistico): gradito ritorno, a sei anni dall’ultima esibizione di una fra le maggiori compagini da camera su strumenti d’epoca, forte di quarant’anni di esperienza, pluri premiata e distintasi in svariate produzioni discografiche. Ad affiancare la blasonata formazione orchestrale e lo strepitoso ensemble corale, ecco un pool di specialisti, ovvero un quartetto di scelte voci soliste, il soprano Julia Doyle, il contro tenore Benno Schachtner, il tenore Alexander Sprague e il basso Neal Davies.
Auditorium “G. Agnelli” gremitissimo (molti i giovani in sala, e ancora una volta fa piacere constatarlo), insomma un pubblico folto che ha decretato un successo vivissimo per quest’opera, articolata in tre parti, di proporzioni imponenti e di straordinaria opulenza sonora che, con i suoi tre secoli di vita, o poco meno, continua a toccare le corde dei pubblici (e dei fedeli) di tutto il mondo. E così nel corso delle quasi tre ore di musica (si tratta di complessivi quarantasette numeri musicali, tra arie, duetti, recitativi e soprattutto imponenti interventi corali) non un solo istante l’attenzione è venuta meno, dinanzi a questa singolare sintesi operata da Haendel tra elementi peculiari della Passione luterana, oratorio barocco ed Anthem britannico.
Di interpretazione di alto livello si è trattato, soprattutto sul versante corale. Meritatamente ammiratissimo il RIAS Kammerchor Berlin per compattezza sonora, coesione, possanza, accuratezza dei fraseggi, articolazione, varietà e bellezza timbrica, appropriatezza stilistica e molto altro ancora. E subito la temperatura emotiva è salita in And the Glory of the Lord. Per poi mantenersi alta in tutti gli ulteriori interventi corali (e si sa che sono molti, da Glory to God all’emblematico Hallelujah che chiude la seconda sezione del Messiah). Bene l’orchestra dalla quale avremmo forse desiderato qualche colore in più, qualche guizzo. Merito peraltro del direttore Doyle dal gesto preciso ed efficace, aver governato saldamente il tutto, con scrupolo filologico, dunque senza sconfinamenti stilistici indebiti, ma al tempo stesso concedendo qualche pur trattenuto abbandono a sonorità più corpose ed aitanti momenti.
Di rilievo l’apporto delle voci soliste: apprezzato il soprano Julia Doyle per la scrupolosa professionalità e la sagacia interpretativa, la tecnica impeccabile e la cura dei fraseggi. Bene il contro tenore Benno Schachtner, sostanzialmente a posto sul piano squisitamente tecnico, ancorché dal timbro talora sbiancato. Un po’ troppo vibrato quello sfoggiato dal pur valido basso Neal Davies che, nella celebre aria con la tromba concertante, ha finito per comprometterne lievemente l’intonazione in qualche tratto. Voce piccola, ma coinvolgente, quella del tenore Alexander Sprague che in apertura aveva destato perplessità, mostrando qualche piccola défaillance, ma è andato poi emergendo al meglio nel corso della serata.
Ad introdurre all’ascolto, un paio d’ore prima del concerto, una succosa conversazione in Sala Madrid a cura di Alberto Mattioli, giornalista, musicologo e critico musicale, raffinata ‘penna’ e fascinoso affabulatore: rivelatasi preziosa per addentrarsi nella genesi del capolavoro, nella sua storia interpretativa, dalla première ai giorni nostri.