di Gianluigi Mattietti
Il Teatro dell’Opera di Roma ha inaugurato la sua stagione con un nuovo allestimento di Mefistofele, opera ultimamente di gran moda in Italia, dopo gli allestimenti di Modena nella scorsa stagione e di quelli di Cagliari e di Venezia nella stagione corrente.
Regista di questo spettacolo, coprodotto con il Teatro Real di Madrid, era Simon Stone, celebre per le sue riletture radicali e glamour di alcuni titoli di repertorio – celebre la sua Lucia “oppiomane” e “spatter” (al Met), la Traviata “influencer” (a Parigi) il Tristano “newyorkese” (ad Aix) – e di titoli moderni – Lear di Reimann, Innocence della Saariaho, The Greek Passion di Martinu -. Alla sua prima esperienza in Italia, il regista australiano ha come sempre rivisitato l’opera in chiave moderna, cercando di intercettare problematiche e “tic” tipici della contemporaneità, bypassando ogni riferimento diretto al libretto e all’immaginario boitiano, evitando le tradizionali connotazioni oleografiche (come la Francoforte medioevale), i gironi infernali, la spettacolarità caotica e a buon mercato ottenuta spesso con le proiezioni video (come nel Mefistofele di Enrico Stinchelli). Stone ha accettato la sfida di un’opera piena di incongruenze («Boito è illogico, caotico e pazzo. Bisogna assecondare la sua follia»), ma ne ha colto il potenziale energetico, mettendo a frutto anche la sua esperienza cinematografica (The Daughter, The Dig), scegliendo una ambientazione atemporale, un disegno geometrico come metafora del bene (incarnato da Faust), a tratti così asettico da apparire come una realtà virtuale, che veniva però scompigliata e colorata dalle irruzioni di Mefistofele. Nell’immenso spazio scenico, spoglio, con arredi essenziali, dominato da un bianco accecante (scene e costumi di Mel Page), che cambiava colore con le pennellate luminose di James Farncombe, i personaggi venivano guidati con estrema cura nella recitazione e nei movimenti, contrapponendosi alle masse corali, statiche e ieratiche come dei tableaux. E ogni scena mostrava una precisa connotazione: fantascientifica nel Prologo in cielo, dove l’enorme sala bianca era tagliata da lunghe fessure orizzontali che ospitavano le falangi celesti, mentre Mefistofele si inerpicava su una scala a chiocciola al centro della scena; deliziosamente straniante nella scena pasquale, un lunapark con giostra, palloncini, carretto dello zucchero filato, e Mefistofele vestito da clown in tuta ignifuga (ottima per i soggiorni infernali); sinistra nel laboratorio di Faust, rappresentato come una clinica piena di radiografie ma improvvisamente animata dall’arrivo di due ragazze sexy; giocosa nella scena del giardino, trasformato in una piscina di palle colorate; inquietante nella scena del carcere, dove gli incubi e i ricordi di Margherita si materializzavano in brevi flash su uno schermo nero; olimpica e cruenta nel sabba classico, inquadrato tra marmorei colonnati; straziante nell’Epilogo in un ospizio, dove Faust arrivava, vecchio, su una sedia a rotelle, e alla fine stramazzava circondato dagli altri pazienti, come in un pittorico compianto.
Michele Mariotti, che ha diretto per la prima volta l’opera di Boito, ha dosato magnificamente pesi e colori nelle parti liriche dell’opera, ha dipanato con grande nitidezza quelle contrappuntistiche, ma ha calcato un po’ la mano nei crescendo e nelle impennate orchestrali, disegnate da Boito in maniera piuttosto basica, con formule cadenzali reiterate e lunghe progressioni. Ottima comunque la prova dell’orchestra, del coro (diretto da Ciro Visco), precisissimo anche nelle pagine più ritmiche e incalzanti, e delle voci bianche (dirette da Alberto De Sanctis). Il basso canadese John Relyea era un Mefistofele di grande personalità, si muoveva con disinvoltura e padroneggiava la parte con duttilità espressiva, tronfio e insinuante, ironico e minaccioso, ma un po’ ingolato e fiacco nel registro grave. Intenso e appassionato il canto di Joshua Guerrero, nei panni di Faust, ma dalla vocalità troppo leggera, disomogenea, con più forzature che sfumature. Bravissima Maria Agresta ne cogliere i diversi caratteri di Margherita, ingenua o angosciata, con unavoce calda, piena di nuances, anche nel ruolo di Elena. Ottimo il resto del cast con Sofia Koberidze (Marta e Pantalis), Marco Miglietta (Wagner), Leonardo Trinciarelli (Nereo).