Bruce Liu, ventiquattro anni, canadese nato da genitori cinesi, è il vincitore nel 2021 del Concorso Chopin di Varsavia, evento che ha goduto di un grande seguito di pubblico anche perché tutte le prove della manifestazione erano state rese disponibili in rete.
Come è oggi d’uso, Liu è andato in seguito in giro con un unico programma di recital che ricalcava il repertorio portato al concorso e ha suonato in ogni dove, inclusa l’Italia almeno per quanto riguardava Genova e forse qualche altra città. Approda oggi alla Società del Quartetto di Milano e non fa che confermare ciò che avevo detto di lui all’epoca del Concorso e in seguito alla pubblicazione di un cd per la Deutsche Grammophon. Liu aveva conquistato il primo premio grazie al rispetto delle regole di fondo della competizione (esecuzioni corrette, riassuntive di tutta un’aurea tradizione precedente, possibilmente lontane da colpi di testa di ogni sorta) e con queste premesse si è posto immediatamente sul mercato concertistico.
Il recital milanese ha visto due momenti distinti che in un certo senso sottolineano le caratteristiche della figura di artista di Liu. Nella prima parte il giovane pianista ha esordito con una serie di pezzi di Rameau che aprono una questione di fondo non da poco: Rameau è autore essenzialmente clavicembalistico, legato profondamente a questioni coloristiche che sono difficilissime da trasferire sul moderno pianoforte. Ci riusciva in parte uno Cziffra, attingendo a doti che le giovani generazioni non sono in grado nemmeno di imitare e i cui risultati già ai tempi non erano esenti da forzature. La lettura di Liu è stata non più che corretta e piuttosto incomprensibile se offerta come antipasto al programma chopiniano e lisztiano che seguiva. Programma che ha sottolineato le splendide qualità virtuosistiche di Liu nel momento in cui ha affrontato due pagine proibitive come le Variazioni op.2 di Chopin e le Reminiscenze dal Don Giovanni di Liszt, ambedue eseguite con un dispiego di qualità pianistiche davvero da capogiro. Possiamo con sicurezza affermare che non abbiamo mai ascoltato dal vivo l’esecuzione del grande lavoro lisztiano con tale pulizia di gioco pianistico e di resa integrale di un testo che è di difficoltà assoluta e che mette alla prova il solista anche per la sua considerevole lunghezza, che concentra oltretutto i passaggi più proibitivi nel finale, quando già le forze dell’esecutore sono allo stremo. Sorridevamo pensando al fatto che in un certo senso Liu in quel momento riscattava una figuraccia che aveva avuto come protagonista al Quartetto il famoso Tamas Vasary, che nel lontano febbraio del 1980 aveva concluso un suo recital con lo stesso pezzo, ma con risultati a dir poco disastrosi.
Il problema è che la resa straordinaria di elementi virtuosistici non si collega, per Liu, a una altrettanta perizia interpretativa nel momento in cui egli affronta elementi chopiniani diciamo più “seri” come la Terza ballata o il Quarto scherzo. In questi casi il pianista si è abbandonato a un gioco fatto di accenti secondari e di finti preziosismi di fraseggio che dimostravano solamente una notevole confusione di idee. Ora, ci si pone la fatidica domanda: è proprio necessario oggi fare affidamento su figure di questo tipo? E soprattutto, come è possibile che lo stesso pubblico si infiammi di fronte a un personaggio simile e allo stesso tempo si inchini deferente alle ultime scarnificate esternazioni musicali di un Pollini? Mondi completamente diversi, totalmente antitetici, e reazioni del pubblico incomprensibili che purtroppo fanno pensare a una elementare reazione del pubblico stesso di livello molto basso, testimoniato dal continuo, fastidioso canticchiare di molte persone anziane nel momento in cui veniva presentato il famoso tema del «Là ci darem la mano». C’è bisogno anche di altra musica, ma soprattutto di altro pubblico, come del resto si va ripetendo da più parti nel caso del repertorio del teatro musicale e degli irriducibili sostenitori dei gruppi di “nonna lirica”.