di Luca Chierici
Contraddicendo una tendenza purtroppo diffusa ai giorni nostri nelle sale da concerto – ossia la decimazione del pubblico dovuta solo in parte al tragico fenomeno del Covid – Grigori Sokolov è riuscito ad attirare una grande folla per il suo appuntamento annuale organizzato dalla Società dei Concerti di Milano.
Una folla quasi incurante della difficoltà dei programmi proposti dall’artista e disposto a perdonare quelle che possono sembrare scelte davvero controcorrente. Controcorrente è oramai da molti anni il progetto che consiste nel proporre forti dosi di musica cembalistica sul moderno pianoforte, con escursioni corpose sul terreno dei Rameau, del Couperin, persino dei Byrd e dei Froberger per arrivare ora a Purcell, campione indiscusso della tradizione musicale britannica. Il tocco di Sokolov è tale da minimizzare l’impatto di quel tipo di musica sulle tastiere attuali e proverbiale è la perfezione digitale del pianista nei casi in cui si tratti di sciorinare veloci abbellimenti di qualsiasi tipo. Anche la scelta del programma, in questo contesto, è troppo precisa per potere apparire casuale, e di Purcell si sono ascoltate sequenze di suites inframmezzate da altri pezzi più brevi e poco diffusi in pubblico. Una quarantina di minuti di musica seicentesca non sono facili da digerire, ma il silenzio del pubblico in attento ascolto non lasciava dubbi sulla statura dell’interprete, o almeno sulla magica ascendenza che Sokolov esercita sugli astanti.
Molto più difficile era tentare di giustificare la scelta della seconda parte del programma, soprattutto se posta in relazione con la prima. Che ci azzecca il Mozart della Sonata K 333 e dell’Adagio K 540 con quanto si era ascoltato in precedenza? Non è dato di sapere, così come un poco punitiva è sembrata la scelta di realizzare tutti i ritornelli in entrambe le composizioni: d’accordo, così è scritto, ma proiettare le dimensioni della solare Sonata in si bemolle maggiore in un contesto quasi sinfonico è parso quantomeno esagerato. Non parliamo poi dell’Adagio, che solitamente viene eseguito nelle vesti di un doloroso commiato (Pollini lo aveva suonato a Salisburgo in morte di Karl Böhm) e che qui assumeva il carattere di una orazione funebre di dimensioni apocalittiche. E se l’accostamento tra Purcell e Mozart appariva a noi tapini piuttosto tirato per i capelli, a maggior ragione sembrava assurdo continuare il discorso dopo l’Adagio con la consueta gragnuola di bis che ripercorrevano una lunga tradizione spesso associata ai nomi di Gilels e Richter.
Non potremmo trovare un abbinamento più stridente di quello che associa il K 540 di Mozart al Preludio op.23 n.2 di Rachmaninov, una pagina che scuote la tastiera e che difficilmente si lascia leggere al di fuori di un contesto di giubilo esagerato, ovviamente del tutto estraneo all’atmosfera di mestizia assoluta del saggio mozartiano. Era un Preludio che il giovane Gilels suonava di fronte ai soldati sovietici in guerra per motivarli alla riscossa, e ancora una volta rinunciamo a comprendere quali misteriosi grovigli si addensino nella mente di Sokolov nel momento della scelta dei suoi fuori programma. Che sono proseguiti tra Chopin e Rameau seguendo una tradizione cui siamo abituati dai tempi di Berman e di altri campioni del pianismo russo. Ma la capacità da parte di Sokolov – come del resto quella di Volodos – di soggiogare il proprio pubblico a volte attraverso scelte un filo coercitive è al di là di ogni comprensione, come se il pubblico stesso non avesse diritto a mettere il becco nelle scelte di questi Eletti. Pollini lo faceva propinando forti dosi di musica del Novecento, qui ci si attesta più modestamente su una Mazurka o sull’affascinante Preludio di Bach-Siloti, là dove il pianista conosce benissimo l’entità del deliquio che quel controcanto esercita sul pubblico, così come avviene nell’Ave Maria di Schubert-Gounod.