di Santi Calabrò
Il ritorno di Anna Kravtchenko a Messina, ospite al Palacultura dell’Associazione musicale “V. Bellini”, sembra fermare il tempo. La si era ascoltata più volte in riva allo Stretto dopo la vittoria al Concorso “Busoni” nell’edizione del 1992, a soli sedici anni.
All’epoca Kravtchenko suonava con l’energia e il temperamento di una musicista molto giovane, molto talentuosa e con le evidenti connotazioni di un pianismo che è inevitabile definire come “scuola russa” (anche se la Kravtchenko è ucraina; ma l’arte non smette di sostenere la fratellanza, a dispetto della odierna follia bellica e delle sue altrettanto orribili stratificazioni storiche di odio tra popoli con radici comuni). Oggi, nel modo di suonare, la pianista appare ancora sia giovane che talentuosa, anche se in modo diverso: la maturazione è evidente in molti aspetti, ma in altri Kravtchenko è ancora più “giovane” che al debutto, perché non deve preoccuparsi più di compiacere le commissioni dei concorsi pianistici, rispondendo solo alla musica e al pubblico. Nel suo stile si manifesta un’istanza di libertà, a partire dal fraseggio e dal suo rapporto con un suono potente, cantabile, sensuale, dinamicamente sfaccettato. Suonando così, è ovvio, si prendono dei rischi, e non si può dire che la pianista vada sempre a segno. Quando ci va, però, si nota; di sicuro non è un’artista prevedibile. Essendo Kravtchenko nel pieno della sua parabola di artista, ci si potrebbe tuttavia domandare: perché accontentarsi? Perché riproporre così spesso alcuni cavalli di battaglia? Con i suoi mezzi, potrebbe anche seguire a modo suo le orme di Pletnëv, che ha sempre suonato bene, ma negli ultimi anni si è trasformato, diventando non solo uno dei migliori interpreti al mondo ma anche uno dei più originali.
Già con un Haydn prima maniera (Sonata in mi magg. Hob. XVI:13), stilisticamente problematico di suo, la Kravtchenko del 2023 è capace di sorprendere. Se nel primo movimento e nel finale qualche eccesso attenta al delicato equilibrio architettonico e sonoro della composizione, il movimento centrale, un Minuetto con struggente Trio in mi minore, diventa qui un trionfo dell’Empfisandamer Stil. «Se volete sapere da chi ho imparato ascoltate la musica di Carl Philipp Emanuel Bach», diceva Haydn. Quando una tigre della tastiera incontra un Trio del genere e lo trasfigura con le pennellate sonore di cui è capace un pianoforte moderno, Haydn e tutto il Settecento possono disvelarsi come uno scrigno di meraviglie, ancora tutto da riscoprire.
Nel Carnaval op. 9 di Schumann tutti i mezzi del pianismo di Kravtchenko sembrano immediatamente adeguati alla scrittura, a parte uno: non si capisce cosa le costi, con le mani da virtuosa che si ritrova, suonare le ottave legate senza affidarsi solo al pedale (in particolare nel n. 4, Valse noble). Detto questo, è un Carnaval pieno di emozioni, che sembra nascere nel momento in cui viene eseguito, come improvvisato sull’istante. Tuttavia, se persino la vera improvvisazione scaturisce più da schemi digeriti che da divinazioni dell’attimo, anche i pianisti meno prevedibili seguono un progetto. In questo caso, per quanto Kravtchenko sembri suonare (e cantare: non riesce a farne a meno!) seguendo l’ispirazione, due idee precise di matrice opposta (una costruttiva, l’altra de-costruttiva) paiono dividersi il campo schumanniano. Dal lato costruttivo Kravtchenko ha un gusto spiccatissimo per l’anticlimax. Dal lato de-costruttivo, i disegni ripetuti subiscono piccole inflessioni differenziali, fino al limite dell’inversione dei rapporti. L’esecuzione del n. 11, Chiarina, è la sigla più eloquente di questa ambivalenza. Le quattro battute con il basso che scende di grado sono suonate sempre in crescendo e con un tempo che tende al rubato; le successive quattro, che chiudono con una cadenza composta, arrivano come una risposta più sbrigativa e meno enfatica. Le dinamiche del testo schumanniano suggeriscono il contrario? Non importa. Solo nell’ultima delle ripetizioni la cadenza finale suona trionfante. Tutto questo, leggendo la pagina, sembra un po’ folle: non siamo certo alla conclusione del ciclo, e dopo Chiarina viene l’omaggio di Schumann a Chopin, dal carattere più lirico… Eppure tutto suona ugualmente convincente: innanzitutto perché lei, Kravtchenko, è tutto fuorché poco convinta! Lo stesso empito de-costruttivo governa non solo la scoperta di controcanti originali, ma soprattutto la loro gestione. Kravtchenko non avverte la necessità di mantenerli con lo stesso range dinamico fino alla loro conclusione. Non che una linea venga abbandonato del tutto al suo destino – solidissima, per fortuna, la formazione musicale: la scuola su cui germoglia l’interprete –, ma se strada facendo c’è un’altra parte che sembra meritare evidenza, sia pure più per via timbrica che strutturale, la pianista va senza esitazioni dove la porta il cuore.
La Rapsodia ungherese n. 12 di Liszt è molto adatta ad una musicista di questo tipo. Probabilmente questa è la Rapsodia preferita da Kravtchenko, che la suona spesso proprio perché è “rapsodica” al quadrato. Oggi nessuno la eseguirebbe subito dopo Haydn e Schumann, a conclusione di una prima parte di concerto. Del resto il Carnaval già chiude trionfalmente, e infatti è di prassi eseguirlo prima dell’intervallo. Così fan tutti e così faceva la pianista ucraina a inizio di carriera (anche a Messina nel 1993). Quanto a Liszt, nel programma eseguito da Anna Kravtchenko a Messina nel 1996, dopo la prima parte che prevedeva l’Aria variata BWV 989 di Bach e i Phantasiestücke op. 12 di Schumann, la seconda parte si concludeva con la Rapsodia prediletta: una festa lisziana, preceduta da una silloge di Lieder schubertiani trascritti dal mago ungherese. Insomma, programmi costruiti “come si deve”. Ma perché Kravtchenko, da adulta, dovrebbe gravarsi ancora di annose questioni come l’impaginazione coerente di un programma? Se già una Rapsodia “per concludere” è un po’ retaggio di tempi che furono, lei ora aggiunge la libertà di una sorta di sontuoso bis concesso in anticipo, alla metà del concerto. È normale, commenterebbe forse Piero Rattalino, che ad oltre novant’anni resta il più giovane dei nostri studiosi: è la via del “pianismo postmoderno”!
Nonostante viva e studi in Italia dai tempi dell’adolescenza, e ora insegni in Svizzera, Anna Kravtchenko continua a trasmettere impetuosamente il vento dell’Est (in senso slavo, non certo asiatico). Che suoni Haydn, Schumann o Liszt, la sua cifra ha sempre dei tratti di tumulto, di immensità di spazi e di altrettanto immense angustie, e tradisce la provenienza da una cultura diversa ma vicina (il che può diventare occasione per entrare nelle pieghe più profonde del repertorio delle culture collocate più a Ovest). Con Čajkovskij è diverso: si ascolta un’interprete che recita nella sua lingua madre. Quando Kravtchenko “gioca in casa”, l’esposizione è in qualche modo più tranquilla, in un certo senso più classica, e la stessa tentazione de-costruttiva tende a stare più rintanata. È un fenomeno che avviene solo con gli interpreti che una volta si definivano di “oltre cortina” e che – per fortuna! – non si arresta nel mondo attuale sempre più globalizzato. Ascoltando nella Settima Sonata di Prokofiev uno dei più spettacolari ed equilibrati giovani talenti di oggi, il russo Ivan Bessonov, si percepisce nello stesso tempo una “sonata di guerra” e un “classico”. Specularmente, eseguendo la Sonata op. 13 “Patetica”di Beethoven, i migliori pianisti di scuola austro-tedesca restituiscono sia lo Sturm und Drang che un culmine dell’estetica razionalista del Settecento maturo. Al riguardo, ancora oggi i giovani pianisti russi che girano per i concorsi spesso sostengono perentoriamente come a Mosca la Settima di Prokofiev sia come a Vienna la Patetica. Di certo meno frequente, in verità non l’abbiamo mai sentita, la giustapposizione tra il Carnaval di Schumann e le Stagioni op. 37a di Čajkovskij, che Anna Kravtchenko ha eseguito in questa occasione. Ma è un raffronto che ci sta tutto, alla luce dell’intero concerto. Con Kravtchenko in versione lingua madre, per quanto a suo modo il ductus appaia “classicizzato” (le estemporaneità ci sono ancora tutte ma hanno una misura più contenuta, e la linea del canto è sovrana), l’intensità espressiva buca il velo dell’ordine, e tutto un mondo ci avvolge, ben oltre i termini apparenti di una raccolta di fogli d’album che molti bollano come “salottiera”. I numeri più lirici della raccolta sono di un’intensità quasi insostenibile, e sembrano contenere tutte le tragedie della Russia – e dell’Ucraina – fin dai tempi di Čajkovskij e anche dopo. Oggi, però, e non per colpa di Kravtchenko, ci viene negata la catarsi consolatoria, che è il regalo dell’arte e della musica quando rappresentano il dolore in tempi in cui il dolore stesso è un ricordo, un sottotesto della vita, una possibilità e non una truce evidenza di carneficina quotidiana. Ascoltare la musica di Čajkovskij ogni giorno potrebbe servire anche ai governanti per immaginare una via di uscita dall’orrore.
L’ultimo numero delle Stagioni riporta gradualmente al clima e alla pianista della prima parte del concerto. Mostrando un’energia indomita (che ricorda Lazar Berman), Kravtchenko risponde alle feste del pubblico con due bis leonini: l’Intermezzo dall’op. 26 di Schumann e Widmung di Schumann-Liszt. Il primo, in particolare, è un capolavoro interpretativo. La disciplina dell’anticlimax qui risulta tanto calcolata quanto estremizzata: nel punto culminante le due note acute che tutti sparano più forti ed enfatiche sono suonate così piano da risultare più immaginate che percepite. Questo momento da vertigine forse fa presagire una delle vie possibili per un’evoluzione di questa interprete, soprattutto nel repertorio “extra-slavo”. Ad approfondire i calcoli, a costruire meglio la stessa decostruzione, in questo caso non si rischia niente: una Kravtchenko troppo cartesiana è semplicemente impensabile.