di Gianluigi Mattietti
Il festival Eclat di Stoccarda si è confermato anche quest’anno come una rassegna capace di ampliare il concetto stesso di composizione e di esecuzione, di rimettere in discussione i formati dei concerti, gli spazi, i media, il ruolo degli interpreti e del pubblico.
Nelle diverse sale del Theaterhaus si è potuto assistere a diversi progetti di carattere performativo, tra i quali spiccavano Unsupervised Sounds di Genoël von Lilienstern, affidato all’Ensemble Garage, e Scenes from the Plastisphere di Rama Gottfried, interpretato dall’Ensemble Mosaik. Il primo era pensato come un esperimento in un laboratorio del suono, dove i musicisti erano guidati da una intelligenza artificiale che si manifestava come una voce fuori campo, che dava istruzioni ai vari strumenti, via via illuminati da improvvisi fasci di luce: ogni suono strumentale veniva registrato e poi riprodotto dagli altoparlanti, ma distorto, e quell’esperimento di reti neuronali si rivelava giocoso e ironico, pieno di errori e di capricci. Scenes from the Plastisphere si ispirava invece al nuovo ecosistema di detriti di plastica accumulati in fondo agli oceani, che gli scienziati chiamano “plastisfera”: il compositore americano ha creato un teatro di piccoli oggetti visti al microscopio, manipolati dagli esecutori, proiettati in un video dove apparivano come creature immaginarie, ibride, che si animavano in un ambiente pseudo-organico, e sembravano parlare, producendo un universo fantastico di suoni e di rumori.
Molte piacevoli sorprese sono venute però da composizioni concepite in maniera più tradizionale, attraverso la scrittura per strumenti e per voci, con o senza l’elettronica. In un concerto intitolato “Body Electric”, con l’elettronica Ircam (e con un’interessante drammaturgia di luci) si sono fatte notare due compositrici italiane, Francesca Verunelli e Claudia Jane Scroccaro. In bianco e nero della Verunelli, per contrabbasso (Florentin Ginot) e fisarmonica (Krassimir Sterev), giocava sulla contrapposizione tra la dimensione “disincarnata”, astratta del suono elettronico, che risuonava come un’interferenza di sottofondo, e quella “corporea” del suono strumentale, fatta di gesti violenti, percussivi, pulsanti. Tratti molto “fisici” mostrava anche I sing the body electric della Scroccaro, ispirato a una poesia di Walt Whitman, che dava una nuova voce al contrabbasso, attraverso alcune scordature e un gioco elettronico, molto ben sviluppato, di distorsioni, deformazioni, amplificazioni che generavano un vivido universo di suoni.
Una dimostrazione delle infinite possibilità timbriche nella scrittura cameristica è venuta dal Trio Catch (clarinetto, violoncello e pianoforte) in due lavori di Julien Jamet, e di Judit Varga: Nuit, del compositore francese, era un pezzo piccolo, frammentario, imprevedibile e raffinato, dotato di una forte carica evocativa, costruito con brevi frasi dai colori sempre diversi, con ripetizioni e trasformazioni, con gesti netti e sempre consequenziali; le dodici miniature di Fenster, della compositrice ungherese, si basavano ciascuna su un’idea semplice e specifica (che appariva talvolta come una citazione) ma che si sviluppava sempre in maniera imprevedibile, caricandosi di energia o rallentando come per spegnersi. Un capolavoro assoluto nel genere cameristico è stato Pendulum XI “Strato” di Alex Mincek, per quartetto d’archi (Mivos Quartet) e chitarra elettrica (Nadav Lev): pezzo conclusivo di un ciclo ispirato ai movimenti del pendolo, fondeva in maniera “inaudita” il suono degli archi con quello della chitarra elettrica, creando zone soffocate, acide, gorgoglianti, in un gioco periodico di echi e pulsazioni, di processi che si stratificavano con fasi e “orbite” diverse.
Un processo sonoro insieme di facile lettura e grande seduzione, caratterizzava Hard Boiled Variations (15 ½ Cycles) di Arnulf Hermann, eseguito dall’Ensemble Modern diretto da Enno Poppe: un ciclo di variazioni che partivano da una lunga sequenza, molto articolata e ricca di dettagli timbrici, ripetuta in maniera sempre più accelerata e compressa fino all’ultima variazione, di solo tre secondi, coagulata in un accordo. La musica non diventava semplicemente più veloce, si raddensava, cambiava natura, producendo uno spostamento continuo della percezione, che a ogni ripetizione perdeva di vista alcuni dettagli ma suggeriva sempre nuove prospettive. Intriganti all’ascolto anche due lavori diretti da Titus Engel con la SWR Symphonieorchester: Scorching Scherzo per pianoforte e orchestra (solista Joonas Ahonen), di Bernhard Gander, portava ogni elemento alle estreme conseguenze, lo faceva crescere, lo arroventava, innestava due brevi citazioni di Scherzi chopiniani, che venivano smontate, prolungate, per poi contaminare tutta l’orchestra, giocava su movimenti di masse, paralleli e sfasati, su blocchi martellanti, su grumi degli ottoni, sempre con un incessante impulso ritmico. Se di Gander si conoscevano già le virtù, è stata invece una piacevole scoperta il nuovo pezzo dello svizzero Stefan Keller, Elektras Tanz, basato su una semplice cellula (un glissato ascendente seguito da un intervallo discendente) che si sviluppava in maniera molto coerente, con una grande varietà di soluzioni timbriche e armoniche, con una scrittura densa e sapiente, con movimenti simultanei e contraddittori, con sonorità insieme tenere e aggressive, che evocavano i sentimenti contrastanti di Elektra, che piange il padre assassinato ed è ossessionata dalla sete di vendetta contro la madre.