di Luca Chierici
Di Mozart pianistico se ne sente molto poco, soprattutto perché sono pochi i solisti che osano affrontare un repertorio bellissimo quanto “scoperto”, pieno di tante piccole insidie.
E un linguaggio che ammette, ma con cautela, qualche intervento improvvisatorio per certe fermate o sezioni di passaggio: guai a osare troppo e in un paio di casi il ventitreene Fujita ha improvvisato un po’ troppo facendo oscillare la linea narrativa in maniera piuttosto percepibile. Ma in generale il suo è un Mozart giocoso al punto giusto, con le corrette sottolineature nei passaggi al minore, con la tragedia in punta di penna ove occorre. Quattro sonate del medesimo periodo (K.309, 310, 311 e 333) che avevamo tutti in testa ma che non si ascoltavano dal vivo da molto tempo. Il Mozart di Fujita non è quello assertivo di un Friedrich Gulda, segue uno stile più confidenziale alla Haskil (il pianista ha vinto il primo premio nel 2017 al Concorso intitolato alla grande Clara) e potrebbe suggerire una idea sul come l’autore stesso si sia potuto comportare alla tastiera. Sonate già digerite e incise, ne vorremmo ascoltare altre, si spera in un prossimo appuntamento. Il pianista si muove in maniera dinoccolata, ha una sua spontaneità che piace al pubblico che lo applaudito con convinzione. Intanto ha già conquistato da tempo la simpatia di Riccardo Chailly, che lo aveva diretto nel terzo concerto di Rachmaninov alla Scala lo scorso anno e che lo ha avuto come partner anche nel secondo. Un interprete versatile che merita di essere seguito con attenzione e affetto. LC
di Antonio D’Amato
IL recital monografico di Mao Fujita, tenutosi sabato sera nella sala piccola del Concertgebouw, ha confermato che Mozart di Mao Fujita è unico. Unico non vuol certo dire definitivo, supremo, inarrivabile, piuttosto, il giovane pianista giapponese incanta ogni qual volta mette mano ad una pagina mozartiana, per il modo in cui riesce a farla sua, riuscendo a leggere tra le righe della partitura con una naturalezza impressionante, unica appunto. Le quattro sonate per pianoforte del periodo “di mezzo” presentate da Fujita ad Amsterdam, si rivelano al pubblico in sala fresche, profumate come fiori sbocciati a Primavera, più che mai attuali. Del resto, non è da tutti portare un concerto di Mozart in ben due finali di concorsi internazionali (portando a casa una vittoria e un secondo posto), questo vuol dire intesa con l’autore. L’attacco della K 309 la dice lunga sulle capacità di Fujita di giocare con gli equilibri mozartiani, il piglio è quello giusto, più di un semplice allegro con spirito, il primo movimento della Sonata in do maggiore ha l’argento vivo addosso: gli abbellimenti qui
sono all’altezza del significato letterale, tra le dita di Fujita hanno quasi un’identità propria. Mozart infatti amava improvvisare di tanto in tanto durante i suoi concerti, partendo dalla partitura la variava, impreziosendola di una nuova veste, scintillante e brilluccicosa. È facile pensare al fatto che questa sonata fu scritta dall’autore in carrozza così, al volo, buttata giù in poco tempo, espressamente per una sua allieva, la tredicenne Rosa Cannibich. L’Andante centrale eseguito con grande espressione “non troppo rapido”, così come sarebbe piaciuto alla stessa Cannibich, canta con dolcezza ed espressione.
Il «rumoroso rondò pieno di note» (a detta dello stesso Mozart) si ascolta che è un piacere: mordenti, trilli, tremoli, messi lì a far rumore appunto, improvvisamente si trasformano in foglioline di un bonsai appena potato da sapienti mani, o se preferite, divertentissimi origami ritagliati a perfezione, rendendorli quasi animati, del resto in ogni forma d’arte più le cose sono piccole e più i giapponesi si esaltano nel rederle capolavori in miniatura. Anche se con la musica di Mozart, la ricchezza ornamentale e la ricerca maniacale della perfezione estetica rischiano di diventare meri gesti pletorici. Appartiene al blocco centrale della produzione anche la sonata K 310 in la minore, la tonalità la dice lunga su come il nostro piccolo ma già grande samurai debba essere pronto a cambiare registro: cambio di umori, di sensazioni, d’assetto esecutivo, serve più inquetudine, più sofferenza; la stessa sofferenza che Mozart riverserà nella sola altra sonata scritta in tonalità minore. L’incipit si annuncia volutamente isterico, un misto di rabbia e dolore per la scomparsa della madre appena tre giorni a Parigi.
L’autore qui è alla ricerca di nuovi linguaggi espressivi, più pathos e meno cimento dell’invenzione. Dissonanze armoniche suonano nervose in una marcia che si ripete , rinnovando il dolore. Fujita ha dalla sua un’innata vena di melanconia che nella sonata in la minore gli fa buon gioco. Specie nell’Andante cantabile centrale di cui ne esalta i tratti intimi, introspettivi, toccanti. Il Presto è pirotecnico, denso di luce e brillantezza. In contrapposizione alla sua dubbia data di gestazione, la sonata in si bemolle K 333 ha una struttura precisa, consolidata nella sua forma-sonata con quei suoi tratti melodici, affini alla musica italiana del tempo ma che al contempo conserva sempre la vena mozartiana che ombreggia qua e là su questa sonata dal fare spontaneo e cortese. Il viaggio tra Mannheim a Parigi ha prodotto non soltanto la sonata in do maggiore, ma allo stesso periodo è ascrivibile anche la sonata K 311 in re maggiore dallo stile nobile, concertante, da cui il pianista giapponese ne esce trionfante, a dimostrazione del fatto che il suo Mozart è davvero speciale.