di Attilio Piovano
In assoluto, si tratta di una tra le orchestre da camera migliori al mondo. Fondata nel lontano 1952 dal mitico Bernard Paumgartner, musicista e musicologo di vaglia (è tuttora fondamentale il suo saggio su Mozart, vero pilastro della letteratura critica) la Camerata Salzburg è approdata a Torino, per il cartellone di Lingotto Musica, la sera di martedì 28 febbraio 2023. Ben due i titoli mozartiani in programma, un Concerto pianistico e una Sinfonia.
A centro serata la sublime Sinfonia K 543 che assieme alle pur dissimili K 550 in sol minore e K 551 ‘Jupiter’, costituisce la triade degli ultimi inarrivabili lavori orchestrali mozartiani. Grazie a Camerata Salzburg ed al suo primo violino, Giovanni Guzzo, musicista di vasta esperienza e Konzertmeister di provata abilità, se ne è avuta un’interpretazione davvero magistrale. Guzzo ed i validissimi cameristi ne hanno evidenziato il carattere specifico, mettendo in luce, pur con garbo ed eleganza, certe singolari anticipazioni rispetto alla beethoveniana ‘Eroica’ (non a caso nella medesima tonalità di mi bemolle maggiore) e non solo, beninteso. Pulizia di fraseggi, appropriatezza stilistica e altro ancora hanno impressionato favorevolmente la vasta platea, catturando fin dai primi istanti: ne è emerso un primo tempo effettistico e possente. Dell’Andante, poi, è piaciuto il carattere ‘galante’ e così pure bene aver sottolineato certo bonario humour ‘alla Haydn’ per il Minuetto, con quel suo Trio che pare schizzato fuori da una Serenata, un Divertimento o una Cassazione, e i clarinetti bene in vista con le loro sonorità traslucide e il timbro sensuale. Molto bene anche il Finale, inizialmente in punta d’arco, e poi sempre più vigoroso ed eccitato: una vera lezione di stile, un Mozart nitido e cristallino, grazie alla bravura dell’orchestra, certo, e delle sue ottime prime parti, all’affiatamento impeccabile, nonché alle scelte interpretative poste in atto con lucida intelligenza dall’ipercinetico primo violino che ha tenuto salde le redini ‘supplendo’ egregiamente all’assenza di un direttore.
Che sarebbe stata una serata a suo modo memorabile lo si era compreso già in apertura: un esordio nel segno di Mozart con un’eccellente interpretazione del Concerto in re minore K 466, il più pre romantico tra i Concerti del salisburghese. Solista d’eccezione la pianista Hélène Grimaud, virtuosa dall’innegabile ‘magnetismo’, pianista dalla personalità spiccata e per certi versi fuori dagli schemi. Dinanzi a una sala gremitissima, molti i giovani e fa piacere rilevarlo, ha ottenuto un vero e proprio trionfo personale. Del K 466, ben assecondata dall’Ensemble cameristico, la Grimaud ha molto opportunamente posto in evidenza il lato intrinsecamente demoniaco, fin dall’esordio; bei fraseggi, nitore sonoro assoluto, sciolta scorrevolezza e tecnica solidissima, ma anche una cura speciale nel porre in evidenza impennate, anacoluti musicali, nel rimarcare le dissonanze, l’audacia armonica e altro ancora. Insomma tutti quegli aspetti che del K 466, a partire dalla fosca e cupa tonalità di re minore (la stessa del Requiem, del Don Giovanni o della celeberrima aria delle Regina della Notte) costituiscono gli elementi di maggior fascino. E se l’orchestra pareva procedere inizialmente in direzione più classicheggiante, ecco che la Grimaud, con autorevole determinazione, ha finito per trascinarla entro il vortice che ha toccato il culmine nel pathos del superbo finale. Qualche eccesso, ma di gran fascino: per dire forse è apparso un po’ troppo nevrotico il finale, per l’appunto, ma era scelta intenzionale, e per contro si sono ammirati i colori tenui, come di certe tele del Watteau, giustamente posti in atto per la sublime Romanza che costituisce il movimento centrale, sguardo retrospettivo al passato, quasi Paradise Lost per dirla con Milton. Cadenze beethoveniane a enfatizzare il carattere del lavoro che, non a caso, l’autore della Nona prediligeva.
Non basta: nella medesima serata – circostanza assai inusuale, dato l’impegno anche fisico che la scelta comporta – la Grimaud ha poi affrontato lo Schumann del Concerto in la minore op. 54, dunque ben due Concerti di notevole ‘spessore’ e pur dissimili stilisticamente, nonché distanti cronologicamente. Del Concerto schumanniano è piaciuto il piglio che la Grimaud vi ha impresso, anche se invero ha forse privilegiato un po’ troppo il versante ‘atletico’: può permetterselo, ovviamente, ha virtuosismo e sicurezza in abbondanza, ma l’op. 54 è anche momenti meditativi e assorti (la stupenda oasi lirica in la bemolle entro il primo tempo, apparsa un po’ stranita entro la gragnola di scale, ottave e il mulinare delle mani). Nell’impegnativa cadenza ha superato se stessa raccogliendo applausi scroscianti: sicché il pubblico ha mostrato di apprezzare enormemente il suo pianismo, plateale ed effettistico, perdonandole certa aggressività forse più consona a Rachmaninov che non a Schumann. Molto bene il carattere Biedermeier del pur scialbo movimento centrale, distillato e centellinato con cura, e per l’appunto molta teatralità nel finale, del quale si è un poco perso il gioco polifonico del celebre fugato.
A coronamento della serata un (fin troppo dilatato) bis dell’ucraino Valentyn Syl’vestrov, accolto invero come prevedibile con commozione e grande compostezza da parte del pubblico, stante il messaggio pacifista sotteso alla proposta: sorta di remake mozartiano, quasi una dolce rêverie, in bilico tra minimal music e pagina di ambientazione, tranquillamente tonale, piacevole, garbato, rarefatto e immoto, tenero commiato dopo una serata all’insegna dell’eccitazione sonora.