di Attilio Piovano
Un Barbiere esplicitamente (ed emblematicamente) iberico, quello concepito da Pierre-Emmanuel Rousseau che firma regìa, scene e costumi di un simpatico e brioso allestimento, approdato per la prima volta al Regio di Torino, a inaugurarne la stagione, la sera del 24 gennaio 2023 con diretta radiofonica: allestimento ideato per Opéra National du Rhin (Strasburgo) in coproduzione con Opéra de Rouen Normandie.
E dunque ecco in apertura di sipario apparire un’ambientazione vistosamente andalusa, resa con una superficie a fondo palcoscenico di azulejos, immancabile balconcino sulla sinistra e finestre sul fondale, oggetto di per lo più prevedibili e datate gags (lo sbattere delle imposte durante il temporale come pure nel corso della celebra aria della calunnia, l’annuncio tra le ‘gelosie’ della ferale notizia della sparizione della scala per cui si rende impossibile la fuga ecc. ecc.). Ma si sa, il Barbiere è anche questo. Ancora piastrelle azzurre e policrome per l’interno (di fatto, di scena unica si trattava, idealmente ribaltata, ma mantenendo il balconcino sulla sinistra, luogo di ‘apparizione’ di tutore, Rosina e via elencando): interno dominato da una vasca con acqua vera, un po’ come nel celebre Bagno turco di Domenico Morelli (ma in questo caso di vasca quadrangolare si trattava e non già ovale), nel quale finivano per sguazzare un po’ tutti, da Rosina maliziosamente scalza, ammiccante, poi visibilmente contrariata, giù giù sino a coinvolgere buona parte dei protagonisti. Allestimento – per esplicita ammissione di regista, scenografo e costumista – ispirato a certe tele di Goya (alquanto) liberamente, ma forse è il solo balconcino ad aver fornito una più o meno riconoscibile ispirazione. Insomma, una scenografia moderatamente minimal, ancorché efficace, con la vasca centrale, per l’appunto, a far da teatro a tramestii in qualche caso forse perfino eccessivi; ma il Barbiere si presta ad una lettura scanzonata se non talora rocambolesca con i suoi intrighi, gli equivoci, le situazioni spassose, i travestimenti, le calunnie, le finte lezioni di musica e i misteriosi biglietti, insomma quel mix di elementi che fin dalla storica première, dato il calibrato dosaggio, continuano a mandare in visibilio.
Costumi come fuori dal tempo, quello turchino con inserti in rosso di Rosina (con scarpe decolleté rosse anch’esse) un personaggio che il regista ha inteso delineare, per sua ammissione, quale «una giovane ragazza rinchiusa in una casa governata da vecchi» con un esplicito richiamo a Tristana dell’omonimo film di Buñuel; poi Figaro in canotta o giù di lì, un po’ bullo e un po’ figlio dei fiori e pure cleptomane, ma i sonnacchiosi e podagrosi servitori dall’incedere tardo e lento, quasi bradipi, in costumi settecenteschi. Un look da Rasputin per l’ipercinetico e invasato maestro di musica (capelli biondi lunghi, da Nazareno e tonaca nera), sempre abbinato, nel suo apparire, a luci ‘psichedeliche’ (firmate dal pur mediamente corretto Gilles Gentner) ad aureolare la statua sacra a centro scena sulla parete di fondo; un tocco di pop, forse inteso a catturare un pubblico giovane, ma invero pericolosamente in bilico tra provocazione e caduta di gusto nel kitsch. Intrigante la presenza, in apparenza misteriosa, di una cupola rivestita come il fondale nel primo quadro e nel secondo speculare quanto a colori rispetto alle pareti: da tale ‘cupola’, con sorpresa, in chiusura cala sulla scena il cestello di un’improbabile mongolfiera, divenendo il mezzo a bordo del quale si allontanano (pur sollevandosi di poche spanne) i protagonisti. Ad alcuni è parsa soluzione un poco risibile, ad altri è piaciuta.
La regia muove a dire il vero fin troppo i personaggi. Ne risulta uno spettacolo divertente sì, talora un po’ ipertrofico, infarcito di boutades, lazzi ed altro, che diverte nella sua innegabile scorrevolezza, senza giungere al limite di quelle trouvailles da avanspettacolo che negli anni ‘50 del ‘900 finivano per innescare sguaiate risate nel loggione (tant’è che per estensione, nel gergo teatrale si chiamavano cachinni). E va bene, si tratta pur sempre del Barbiere e non certo del Parsifal, anche se forse una maggior sobrietà avrebbe giovato. La comicità è già tutta nella sublime musica di Rossini e nel plot. Perché aggiungere (talora inutili) dettagli? È pur vero che puntare su un taglio per così dire macchiettistico (si pensi ai celebri finali d’atto, quasi mirifici meccanismi ad orologeria) non fa che enfatizzare quel tipo di comicità – oggi si direbbe demenziale – che delle partiture di Rossini costituisce il presupposto imprescindibile, qualcosa scritto nel Dna stesso.
Ed ora la direzione, affidata al colto Diego Fasolis riconosciuto esperto del repertorio settecentesco e non solo. Ha dato una lettura pimpante e oltremodo brillante della partitura, imprimendo tempi sciolti e scorrevoli, ma in qualche caso forse fin troppo: per dire, talora i recitativi – ottimamente disimpegnati da Carlo Caputo, maestro al fortepiano – risultavano eccessivamente incalzanti, quasi… ‘nevrotici’ (absit iniuria verbis), ma evidentemente la scelta posta in atto rientrava in una precisa ‘visione’ dell’opera stessa. In qualche caso si è avuta la sensazione, quantomeno la sera della prima, di un eccesso ‘fonico’ da parte dell’orchestra, sì da coprire lievemente le voci. Piccoli nei che verosimilmente sono scomparsi nel corso delle repliche. Così pure certe scelte timbriche (l’enfasi della chitarra nella Sinfonia, ad enfatizzare l’ambientazione iberica, e anche rintocchi di campane per la mezzanotte) hanno destato sorpresa, aggiungendo pigmento alla partitura, secondo un gusto spregiudicatamente coerente con la visione dello spettacolo. Insomma una lettura vivace, quella di Fasolis che, con la fluente scioltezza dei fraseggi, l’accuratezza della concertazione e altro ancora ha finito per convincere (quasi) tutti: anche quelli che segnalavano, con pedantesco scrupolo, tagli, scelte a loro dire in parte arbitrarie e via elencando. Del resto Fasolis stesso ha dichiarato: «Per riportare alla luce i colori originali occorre liberare l’opera di Rossini da tutte quelle consuetudini esecutive che si sono sovrapposte in due secoli di rappresentazioni ininterrotte». Occorre riconoscergli di aver fatto un lavoro rilevante, in tal senso, mediamente apprezzato dagli spettatori.
Il cast. Accettabile in complesso, il navigato Antonino Siragusa nei panni del Conte d’Almaviva: intervenuto la sera della prima in sostituzione del previsto Santiago Ballerini (ovvero Nico Darmanin, secondo cast): ha reso con discreta efficacia il personaggio in tutte le sue sfaccettature, sia sul piano vocale e così pure su quello scenico. Ed è stato un crescendo salutato a fine serata da convinti applausi. Anche Leonardo Galeazzi è piaciuto nei panni di un convincente e credibile Don Bartolo. Quanto a Josè Maria Lo Monaco ha restituito buona parte delle pieghe psicologiche concepite da Rossini e librettista delineando un personaggio in bilico tra ingenuità, malizia ed astuzia. Anche nel suo caso, dopo qualche incertezza iniziale come per Siragusa, un che di lievemente irrisolto, ha infine convinto in un crescendo interpretativo salutato a termine serata da convinti consensi. Consensi che hanno finito per riverberarsi sull’intero cast.
E allora applaudito anche il valido John Chest che ha dato una lettura atipica, inconsueta e un poco singolare di Figaro (in sintonia con quanto richiesto dal regista che vede in Figaro «un personaggio che sta tra Arthur Rimbaud e Marlon Brando in Fronte del porto»), una sottolineatura speciale per l’ottima performance di Irina Bogdanova (Berta), così pure ben più di un cenno merita Guido Loconsolo per essere entrato bene nel personaggio esilarante e ‘ipocrita’ come da libretto, di Don Basilio.
Bene, come sempre del resto, il Coro del Regio, ottimamente istruito dalle mani sapienti ed esperte di Andrea Secchi e buona la prova fornita dell’Orchestra del Regio, che ha docilmente assecondato i ritmi per lo più indiavolati e frenetici impressi da Fasolis. Applausi ecumenici a fine serata da parte di un pubblico molto divertito, sì da porre in minoranza le perplessità di una parte della critica.
Da ultimo fa piacere rilevare la massiccia presenza di giovani – che già avevano gremito l’anteprima – e che hanno poi anche frequentato la versione ‘sincretica’, quasi un’opera formato pocket, realizzata da Vittorio Sabadin, Tutti dal Barbiere!, per la regia di Paolo Vettori e con un cast di giovani appartenenti al progetto Regio Ensemble, versione ottimamente diretta dal giovanissimo Riccardo Bisatti, vera e propria rivelazione, salito sul podio del Regio a soli 22 anni (Toscanini vi salì ventottenne): novarese astro nascente della direzione, ottimo pianista ed esperto camerista. Un nome da tenere a mente, farà parlare di sé nei prossimi anni. Tra poco meno di un mese sarà nuovamente a Torino (Piccolo Regio) per dirigervi Powder her face di Thomas Adès.