di Luca Chierici
Maurizio Pollini si è presentato il 13 Febbraio scorso di fronte al suo pubblico scaligero affezionato e plaudente con un programma centrato su tre momenti tipici del suo modo di sentire, iniziando con due serie di Klavierstücke di Schönberg, le opere 11 e 19, proseguendo con “…sofferte onde serene…” dell’amico Luigi Nono, genero di Schönberg stesso e arrivando al sempre amato Chopin nella seconda parte.
Che le condizioni fisiche del Maestro siano oggi palesemente difficili è sotto gli occhi di tutti, come risulta oramai chiaro da diverso tempo che tali condizioni gli permettono solamente in parte di tener fede a un pianismo che è stato giustamente considerato un punto di eccellenza assoluto nel panorama del concertismo della seconda metà del Novecento. L’interrogativo che si pone il critico è quindi il seguente: fino a che punto un solista ha il diritto-dovere di presentarsi di fronte al pubblico? In altre parole, che cosa può dare ancora Pollini in sede concertistica, anche e soprattutto ripensando ai traguardi da lui raggiunti soprattutto nel trentennio 1970-2000? Vi sono, vi sarebbero state molte modalità da parte sua per ribadire il proprio status di protagonista in un mondo musicale in pigra evoluzione: dal concedere periodicamente sessioni formative per una platea di giovani discenti, come fece tra gli altri Cortot, al promuovere dei veri e propri Festival di musica a tema (come fece egli stesso durante i suoi famosi “progetti”) al dedicarsi a un repertorio meno faticoso e soprattutto lontano da possibili paragoni che avrebbero fatto rimpiangere i vecchi tempi. Pollini sceglie invece di proseguire sul versante concertistico ribadendo la più che comprensibile validità del suo credo (suonare il repertorio da lui sempre amato e tenuto in altissima considerazione) incurante dei problemi che questo ruolo oramai gli pone di fronte con evidenza sempre più schiacciante. Il pianista si è presentato l’altra sera con un fascio di musiche che a stento si tenevano ancora assieme, spartiti originali da lui studiati e ristudiati fino alla consunzione.
La partitura di Nono era sempre comparsa nei suoi recital proprio perché indispensabile per ottemperare alla complessa realtà di eventi musicali sincroni tra il suono registrato e la parte eseguita dal vivo. Ma un certo sgomento ci ha assalito quando abbiamo visto comparire gli spartiti di uno Schönberg da lui suonato in pubblico centinaia di volte e soprattutto di uno Chopin che gli scorre nel sangue da tutta la vita. Pollini non è artista che si può permettere tutto questo, perché quelle musiche sono talmente compenetrate nel suo modo di pensare da far sì che la loro presenza sul leggìo ci allontani dall’essenza della sua arte. Presenza che se non si è quasi percepita nel repertorio schoenberghiano (restituito con lucidità assoluta) non è certo servita per uniformare e rendere del tutto comprensibili pagine chopiniane come la Barcarola e il primo Scherzo che risultavano mancanti di integrità, restituite con un suono molto secco derivato anche da un sempre più difficile controllo del pedale di risonanza. Non è la prima volta che notiamo come i grandi pianisti scomparsi a tarda, tardissima età tra gli anni ’80 e ’90 fossero riusciti a mantenere un aplomb miracoloso fino alle ultime loro apparizioni in pubblico. E come un esponente della scuola del secondo ‘900 come Alfred Brendel si sia saggiamente ritirato nel momento in cui non era più possibile un compromesso tra le proprie idee e la loro realizzazione sulla tastiera. Seguendo questo modo di procedere, Pollini soddisfa certamente il proprio autoconvincimento, forse la volontà di proseguire sul palcoscenico la propria attività fino al momento estremo, che ci auguriamo avvenga il più tardi possibile. Non contribuisce però a consacrare per sempre la propria grandissima statura di artista, che deve anche tener conto dell’esistenza di un pubblico e di una critica che lo seguono da quasi settant’anni, sempre più angosciati dalla visione di un artista e di un uomo sempre più affaticato e lontano, nel corpo se non nella mente, dalle insidie del palcoscenico.
Ieri sera a Lugano per la prima volta ho assistito ad un concerto di un musicista e un uomo che ammiro incondizionatamente da sempre …quando e’ entrato sul palco con passo incerto e con il fascio di spartiti sgualciti di Schoenberg ho provato tristezza , poi una voglia di salire sul palco ed abbracciarlo quando ha ‘letto’ affannosamente il suo ( e ‘suo’ non è mai stato così appropriato ) Chopin . Un Uomo , fatto di spirito immenso e carne e ossa combattere contro il tempo
Buongiorno,
vorrei un parere sulla gestione degli spartiti durante il concerto, Grazie
Cordiali saluti
Sergio Sirolla
Trieste