Debutto di Riccardo Chailly nel Teatro milanese in veste di Direttore Principale. Molto applaudita Maria Agresta. Presenti tra le personalità politiche Napolitano, Renzi e Pisapia | Milano brucia
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TURANDOT. LA MOSTRA
di Bianca De Mario
Alla vigilia della prima scaligera di Turandot per Expo 2015, anche il Museo del Teatro alla Scala presta i propri omaggi all’incompiuto capolavoro pucciniano. Grazie alla collaborazione con l’Archivio Storico Ricordi, gli spazi della Biblioteca Livia Simoni, interna al Museo, accoglieranno fino al 30 giugno manifesti, figurini, bozzetti e costumi originali della storica prima del 1926 e di altri suoi fortunati allestimenti.
Oltre al manifesto di Leopoldo Metlicovitz e ai bozzetti di Galileo Chini per le scenografie, si possono ammirare i figurini di Umberto Brunelleschi per i costumi e un breve video dell’Istituto Luce, che documenta il lavoro delle Officine Grafiche. Le sale principali della biblioteca sono occupate dai sontuosi abiti realizzati per le produzioni dagli anni Trenta fino ai giorni nostri. Nelle teche della saletta laterale è invece possibile prendere visione di alcuni documenti sulla gestazione di Turandot: due lettere di Puccini e l’autografo dell’ultima pagina, accanto al quale è posto simbolicamente il finale composto da Berio nel 2002, oggi custodito presso la Paul Sacher Stiftung di Basilea.
Se, come diceva Marcel Mauss, l’anima delle persone è mischiata ai loro oggetti, una pagina di Puccini e una di Berio valgono bene una sosta in Largo Ghiringhelli.
Turandot alla Scala. Documenti e costume storici
30 aprile – 30 giugno 2015
Museo Teatrale alla Scala
Biblioteca Livia Simoni
Largo Ghiringhelli, 1 – Piazza Scala
Per informazioni consultare questo link
Tutti i giorni dalle 9.00 alle 12:30
(ultimo ingresso h 12:00)
e dalle 13:30 alle 17:30
(ultimo ingresso h 17:00)
Biglietto intero 7,00€
Biglietto ridotto 5,00 €
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di Luca Chierici
TURANDOT CON IL FINALE DI LUCIANO BERIO e la regìa di Nikolaus Lehnhoff è giunta finalmente alla Scala con buon successo, anche se con un ritardo di tredici anni rispetto alla prima esecuzione canariota del 24 gennaio 2002 e a quelle poco successive ad Amsterdam, se non contiamo la versione in forma di concerto diretta da Chailly sempre alla Scala nel 2008. La prudenza del nostro massimo teatro è leggendaria e questo ritardo possiamo solamente imputarlo al fatto che tra la fine degli anni ’90 e fino alla metà del successivo decennio il nome di Chailly alla Scala era off limits a causa di un veto, e per potere ascoltare un direttore che pure in quel teatro aveva debuttato giovanissimo era necessario spostarsi dal centro e andare in Largo Mahler. Ce lo confermano, oltre ai ricordi personali, quegli impietosi e freddi strumenti che si chiamano data base e che sono consultabili attraverso l’utilissimo sito-archivio del teatro.
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Chailly ha oggi una visione di Turandot che si è maturata nel tempo e che spiega il perché di un innamoramento nei confronti del finale di Berio, innamoramento che va al di là del pure lusinghiero rapporto che si era stabilito tra il direttore e uno dei massimi compositori italiani del secondo ’900. È necessario però distinguere tra il Puccini compiuto e ciò che Berio ha saputo fare partendo dagli appunti dell’autore. Nel primo caso, è evidente che per Chailly Turandot sia un miracoloso luogo d’incontro tra il teatro lirico italiano di tradizione e la nuova musica che nel frattempo aveva invaso lo scenario europeo. Sono i turbamenti del musicista lucchese nei confronti di Stravinskij o Schönberg a interessare di più un direttore così attento al Novecento storico come è Chailly, e questo elemento porta alla realizzazione di una Turandot di straordinario livello, che sottolinea certamente il dettaglio “dissonante”, la strumentazione efficacissima e nuova, più che il melodiare riferito a una tradizione di canto cui Puccini non poteva certo sottrarsi, anche perché al consolidamento di tale tradizione aveva contribuito – e come! – lui stesso fino a pochissimi anni prima. Tradizione – o meglio travisamento della stessa – che, ci teniamo a sottolinearlo, non andrebbe comunque intesa nel peggiore senso del termine come era stato fatto la sera prima durante l’evento (!) in piazza Duomo.
È evidente che i riferimenti che si colgono nel finale di Berio vedano in Chailly un sostenitore altrettanto convinto e un interprete che da tempo ha fatto sua una partitura già oggi considerabile come “storica”. Ma vi sono alcuni aspetti – rispetto a questo finale – sui quali vorremmo soffermarci. Innanzitutto è necessario non dare per scontato il fatto che Berio sopravanzi Alfano solamente per il motivo di avere utilizzato ventiquattro schizzi di Puccini rispetto ai quattro del predecessore.
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Un semplice collage di elementi pre-esistenti – lo dimostra il discutibile risultato dell’operazione compiuta da Sciarrino sulle cadenze ai concerti per pianoforte di Mozart – non significa di per sé avvicinarsi né al “bello” né alla “verità”. Semmai nell’operazione di Berio è da lodare l’istinto del grande compositore nel rielaborare gli elementi originali dell’opera in una visione che procede verso l’attenuazione dei conflitti e un “finale lieto” senza insistere su effetti trionfalistici che del resto erano molto comuni nella produzione italiana dell’epoca. Rimane il fatto che, a chi scrive, questo completamento ricordi più Berio che Puccini e forse non è un caso che il pubblico rimanga istintivamente piuttosto perplesso di fronte a certi dettagli (più nell’armonia che nella strumentazione) molto estranei alla sensibilità di Puccini stesso.
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All’inserimento di altri riferimenti probabilmente non pensati da Puccini né da Berio ha provveduto quella pur grande artista che è Nina Stemme, cantante di innegabile statura (non in senso fisico, sembrava ancora più bassa infagottata in quell’orribile, luttuoso costume che le era stato affibbiato dal secondo atto). Nel suo canto erano percepibili echi di Salome e di Ariadne, a volte mancava la corretta fonazione e il corretto respiro nelle frasi proprie di questo ruolo pucciniano (in «quel grido e quella morte» ad esempio), e la sua Turandot, pur condotta con grande professionalità ha pienamente convinto soprattutto nella parte conclusiva, dove la soprano svedese si sentiva particolarmente libera e indipendente dal confronto con un passato glorioso. Antonenko è sembrato più a proprio agio, riproponendo un Calaf di tradizione, ma piuttosto rozzo, con poche o punte sfumature, e con una visione del ruolo piuttosto scontata. Il mancato applauso al termine della sua aria più celebre è sicuramente da imputare al fatto che la maggioranza del pubblico si attendeva una cadenza conclusiva perfetta da parte dell’orchestra o una pausa non scritta da parte del direttore e non il subitaneo intervento delle tre maschere.
Conseguenza è stata che il riconoscimento quale protagonista più applaudita sia risultato appannaggio di Maria Agresta, Liù dolcissima eppure assertiva, che porta avanti con convinzione il proprio sacrificio senza cadere nel luogo comune tipico delle eroine pucciniane disperate e annegate in un fiume di lacrime. Di ottima qualità ci è parso il Timur di Alexander Tsymbalyuk, più anonimo l’Altoum di Carlo Bosi, impiegato in un ruolo tutt’altro che facile anche perché il Figlio del cielo è quasi sempre scenicamente collocato ad altezze vertiginose. Le maschere di Gozzi ritrovavano finalmente il loro carattere giocoso grazie sia ai divertenti costumi pensati da Andrea Schmidt-Futterer sia alla bravura di Angelo Veccia, Roberto Covatta e Blagoj Nacoski. Straordinaria è stata le prova del coro scaligero come al solito istruito da Bruno Casoni.
Non nuova era la regìa di Nikolaus Lehnhoff, che oltre ad avere avuto a suo tempo il plauso di Berio, ha saputo allontanarsi con intelligenza, grazie anche alle scene di Raimund Bauer, da una tipologia d’ impianto che almeno alla Scala non si era mai molto distaccata dall’idea di una Cina troppo legata ai fasti della Città imperiale. Tra i costumi disegnati da Andrea Schmidt-Futterer è da segnalare quello di Turandot nell’atto primo, in parte richiamato da quello di Altoum, e concepito per meglio illustrare la inarrivabile lontananza della stirpe imperiale, come se si trattasse di una moderna rivisitazione del lunghissimo strascico indossato dalla Nilsson dei tempi d’oro. Non felici erano invece il costume disegnato per Liù e la sfilata di lunghi giacconi scuri visti e stravisti. Non riusciamo a immaginare quale tipo di commento abbia potuto avanzare a questo riguardo il grande stilista italiano presente in teatro.
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Il Calaf di Antonenko non era semplicemente all’altezza della parte. Acuti sempre sforzati, timbro monotono, tecnica teatrale inesistente. Un disastro.