Successo per il soprano slovacco al Teatro alla Scala
di Ilaria Badino
DEVE PUR ESISTERE UN MOTIVO per cui s’è cominciato ad appellare Edita Gruberova «La Santa di Bratislava». D’altro canto, sono doverose due premesse: se da un lato siamo di fronte a colei che è sicuramente stata la somma belcantista dei decenni post-Sutherland, dall’altro la Signora Gruberova di adesso deve piacere per le prodigiose qualità delle quali – alla veneranda età di sessantanove anni – è ancora in possesso e che la pongono a tutt’oggi ad anni luce di distanza dalle pur belle e brave colleghe di tre decadi più giovani sempre più frequentemente nascenti come nuovi astri dello star system (punta acuminata del suono proiettato verso l’empireo; legato, spesso in pianissimo, da lasciare attoniti; i trilli più adamantini e nitidi di cui a chi scrive sia mai stato dato ascoltare; il senso innato per una teatralità che non si riduce a mera esecuzione delle note).
[restrict]
Prodigiose qualità che sono però irrimediabilmente accompagnate da pecche ben evidenti, quali il quasi costante portamento da una nota all’altra ed un’inesistenza del registro grave che sovente conduce, come risultato, a suoni vuoti ed al contempo ursini dall’effetto a dir poco grottesco. Insomma, il soprano slovacco preso a questo stadio della sua carriera, se non piacesse così com’è nella sua interezza, sarebbe assai facile da demolire anche solo in mezza frase.
Ma, vuoi per deferenza rispetto ad una quasi cinquantennale carriera, vuoi perché la Scala era di fatto colma di ammiratori delle sue doti più che di detrattori dei suoi difetti, la serata del 23 luglio dedicata alle regine donizettiane è stata, per Edita Gruberova, un trionfo che ha sfiorato le eccentriche vette della venerazione nei confronti di una sorta di “reliquia” vivente. Non solo: da evento squisitamente musicale, s’è trasformata in significativo fenomeno di costume.
A fungere da imbonitore dell’Orchestra del Teatro alla Scala al servizio della diva è stato il più che efficiente Marco Armiliato il quale, se non ha potuto impreziosire le del resto intrinsecamente roboanti e scomposte ouverture donizettiane, è però stato ottimo nell’assecondare il predominio delle voci (oltre alla mattatrice Gruberova, ricordiamo il navigato basso Giovanni Furlanetto dal facile passaggio ed i promettenti solisti dell’Accademia di Perfezionamento del teatro stesso: il soprano Chiara Isotton, lo squillante tenore Sehoon Moon, il di lui compagno di corda Azer Rza-Zade e l’affidabile basso Petro Ostapenko).
Al suo avvento in scena, ancor prima di aprire bocca, la Gruberova viene preventivamente accolta da un tripudio già quasi esso stesso inesauribile. Scompaginando le date di composizione delle tre opere per meglio far brillare le proprie qualità, ella dà inizio alle danze con Maria Stuarda: dapprima col duetto purificatore dell’anima con Talbot ed in seguito con il finale ultimo. Quasi un esercizio scaldavoce in vista delle due vere gemme della serata: Anna Bolena e Roberto Devereux. Ed è con l’«Al dolce guidami» della prima che, forse, si tocca il vertice dell’intero concerto: quattro minuti di un niveo, levigatissimo legato, quasi un filato, trapunto di trilli paradisiaci e di smorzature in pianissimo che però non perdono nulla in proiezione. Insomma, non tanto l’interpretazione di un sogno, ma un sogno meraviglioso e cullante esso stesso. Nelle ultime scene del Devereux, invece, ci ritroviamo scagliati all’estremo opposto: una melodia strabica infarcita di sbalzi grave-acuto. Qui emergono quelle famigerate lacune del registro inferiore cui prima s’accennava e che del resto la Gruberova, anche in più verde età, aveva sempre manifestato. Ma il violento effetto di disomogeneità tra i due estremi risulta, quasi paradossalmente ma nemmeno troppo, congeniale per una parte scritta per Giuseppina Ronzi de Begnis nel cui finale ci si trova di fronte al crollo psicologico di Elisabetta I, granitica sovrana della gloriosa Inghilterra ma anche tragicomica amante anziana ferita nell’orgoglio. A livello di mimesi drammatica, la Gruberova dà evidente segno di come accordi la propria preferenza a quest’ultimo ruolo, venendone quasi posseduta in una sorta di estasi.
Alla fine, standing ovation spontanea e veemente da parte di tutto il pubblico in sala, non cronometrata ma durata assai più a lungo dei già interminabili quarantacinque minuti ufficialmente dichiarati per Kaufmann e Flórez, cui è seguito il bis della sola cabaletta «Quel sangue versato». A ruota, altra infinita standing ovation conclusasi con tentativi spesso riusciti di toccare all’intramontabile Edita il sacro lembo della veste o, addirittura, la mano. L’opera, del resto, è anche questo.
[/restrict]