Lo spettacolo inaugurale del Festival Verdi tra cast vocale che non convince e materiale di prima qualità nelle file d’orchestra della Filarmonica Arturo Toscanini e nel Coro del Teatro Regio, a fronte di un capolavoro teatrale e musicale ben altrimenti esigente
di Francesco Lora
LE CELEBRAZIONI VERDIANE DEL 2001 lo hanno rimesso in corso, ma per qualche tempo Otello era divenuto titolo temuto fino all’intoccabilità: nell’isolato allestimento bolognese del 1996, per dire, v’erano Christian Thielemann e Krjstian Johannsson, Renato Bruson e Kallen Esperian; fu uno spettacolo degno degli annali ma, per inabitudine e pregiudizio, fu vissuto come una profanazione della tomba del faraone. I casi paiono ormai invertiti nell’assistere allo spettacolo inaugurale del Festival Verdi al Teatro Regio di Parma: Otello, appunto, per quattro recite intervallate a larghi balzi dal 1° al 17 ottobre; uno spettacolo andato in scena con riguadagnata spensieratezza, salvo poi vedersi recapitare un conto salato dalla micidiale partitura e ridare fuoco alle polveri dell’ululante loggione parmense. La locandina ha buone frecce al suo arco, eppure quasi nulla è andato dritto al segno.
In origine vi si è messo un terremoto tra gli interpreti: Marco Vratogna ha preso il posto di Roberto Frontali nella parte di Jago, mentre Roberto Aronica, debuttante nella parte eponima ma rinunciatario all’ultimo momento, è stato rimpiazzato sulla carta da Lance Ryan e poi dai due tenori che si sono effettivamente sobbarcati le recite, Rudy Park e Carlo Ventre. Aggiunta la Desdemona titolare, si è ottenuto un trio accomunato da spiacevole inadeguatezza. Benché con i primi segni del logorìo, legato a un canto più di natura e fibra che di sagacia e tecnica, all’Otello di Park non difettano la brunitura del timbro, la facilità dell’estensione e l’ampiezza di risonanza; ma la bontà della dizione e lo scavo della parola non sono nemmeno tentati, il gesto iperrealistico conduce il personaggio alla caricatura e il fraseggio è senza bussola, monocorde e spezzato a casaccio dalle prese di fiato.
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Vratogna ha qualche indubbio pregio di requisito e intenzione; la pronuncia è ferma e chiara, e il personaggio pende davvero – come di rado accade – verso il carattere pretesco e insospettabile postulato da Verdi nell’epistolario. Manca tuttavia una solidità tecnica che garantisca acuti schioccanti anziché forzati, emissione non già stanca dopo le prime scene, insinuazioni davvero a fior di labbro e non sospese tra opacità e falsetto. Meno evidenti ma più insidiose sono le mende nella Desdemona di Aurelia Florian, soprano artificiosamente pompato nel sollecitatissimo registro grave, velato e querulo e precluso alla varietà retorica in quello centrale, e presente ma non sempre sicuro e mai luminoso in quello acuto: ne esce un carattere di desolata monotonia, tale da escludere la statura eroica del personaggio e la solidarietà emotiva del pubblico.
I problemi proseguono nel resto della compagnia di canto dove, vuoi per declino naturale dei mezzi vuoi per loro intrinseca modestia, Manuel Pierattelli, Romano Dal Zovo, Stefano Rinaldi Miliani e Gabriella Colecchia non risultano all’altezza delle parti laterali e nondimeno impegnative di Cassio, Lodovico, Montano ed Emilia; si distingue invece il Roderigo di Matteo Mezzaro, forte di modi fragranti e timbro radioso, degno di un più proprio impiego nel repertorio belcantistico. Materiale di prima qualità si ascolta nelle file d’orchestra della Filarmonica Arturo Toscanini e nel Coro del Teatro Regio, cui si affiancano le voci bianche dell’Ars Canto “Giuseppe Verdi”: peccato che il concertatore Daniele Callegari ne tragga scarso profitto, mettendo a punto impasti plumbei e guidando l’opera a passo di lutulenza.
Inspiegabile è infine lo scivolone di Pier Luigi Pizzi, il maestro assoluto del bellezza visiva in teatro: regista, scenografo e costumista del nuovo allestimento, egli urta l’occhio con tessuti tutt’insieme nocciola, bianchi, gialli, viola e arancioni, opachi e lucenti; cita stancamente sé stesso – ma fuori luogo – dall’Otello rossiniano e pesarese di quasi vent’anni fa, innanzitutto nello svolazzante costume etnico di un protagonista sempre a piedi nudi anziché azzimato da generale veneto; inacidisce la scena con elementi di solo ingombro, fino a paralizzare il movimento delle masse; perde di vista alcune ovvietà drammaturgiche, come quando Desdemona ostenta a Cassio il famoso fazzoletto, mezzo teatrale che dovrebbe essere a lui ignoto fino al ritrovamento. Serata inaugurale dove gli applausi finali, al pari dei dissensi, parevano significare lo scarico del disagio accumulato.
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