di Gianluigi Mattietti
DADIV BÖSCH È UN REGISTA GIOVANE, nemmeno quarantenne, che si è avvicinato da poco all’opera, dopo tanto teatro. Dopo gli ultimi successi con Trovatore, La piccola volpe astuta, Idomeneo, Mitridate, Elektra, Simon Boccanegra, si è cimentato con i Meistersinger alla Staatsoper di Monaco, affrontandola senza timori reverenziali, con un taglio tragicomico ma profondo, lontano da letture ideologiche, ma mai superficiale. Ha trasportato l’azione negli anni Cinquanta, in un’epoca di “ricostruzione”, in una periferia urbana degradata (un po’ alla Frank Castorf), trasformando la Festa di San Giovanni in una specie di Oktoberfest.
L’inedito mix di cultura pop e mediatica, di humour e di violenza, oltre a intercettare contraddizioni e problemi sociali anche della storia recente, generava una sorta di straniamento, accresciuto dai bei costumi di Meentje Nielsen, improntati a un certo eclettismo e privi di precise connotazioni storiche. Tra i vicoli e le impalcature di questa periferia si aggirava gente un po’ svitata, maestri eccentrici, apprendisti in calzoncini corti (che cantavano con microfono e atteggiamenti da discoteca), le ragazze in abiti floreali che sembravano uscite da Happy Days, i borghesi delle corporazioni in abiti tradizionali bavaresi. Pogner, boss del rione e sponsor della gara, arrivava in automobile, David si muoveva in scooter e in monopattino, Sachs lavorava in una roulotte scassata (con un’insegna al neon), dove ospitava Walther a dormire.
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Le scene, curatissime, di Patrick Bannwart erano costruite in uno spazio nero, come in uno studio cinematografico, immerse in un’atmosfera cupa, dalle luci livide. Il primo atto non era nella chiesa di Santa Caterina, ma per strada, con una processione religiosa che passava tra barili di birra e le impalcature pronte per la gara canora. Nel secondo atto la scena era dominata da condomini scalcinati, con una selva di parabole, balconi e finestre dalle quali si affacciava una folla variopinta, e Beckmesser che usava una piccola autogru per raggiungere il balcone dell’amata.
Il palco della gara nel terzo atto sembrava quasi un ring da boxe, addobbato da luminarie e sormontato da un maxischermo, dove si poteva vedere la gara trasmessa dalla TV di Pogner, con una presentazione molto buffa di tutti i giurati: una trasmissione televisiva molto trash, vera forma di illusione di massa, narcotizzante, ma che si oscurava, andava fuori sintonia quando Sachs celebrava la supremazia dell’arte tedesca. Un modo molto astuto per esorcizzare un finale problematico, visto sempre come la chiave che ha fatto di quest’opera un emblema dell’ideologia nazista.
Ma il tratto più interessate di questa regìa, di solito trattato in maniera buffa o lasciato sottotraccia, era la violenza, che emergeva in ogni scena, con dei risvolti assai cruenti, che richiamavano la disciplina del fascismo. Walther si sottoponeva all’esame di “emancipazione” per diventare Maestro, legato a una sedia, e gli errori gli venivano marcati con delle scariche elettriche. Gli apprendisti, i vicini, i compagni nella Prügel-Fuge (la fuga delle bastonate) apparivano come una vera banda di teppisti, con maschere da scimmia (che ricordavano Arancia meccanica) e mazze da baseball, che e pestavano a sangue il povero Beckmesser, che poi rientrava in scena su una sedia a rotelle e con un collare ortopedico.
Anche il guardiano notturno, trasformato in un poliziotto di quartiere, veniva minacciato brutalmente e costretto a girare al largo. David subiva le angherie dei suoi compagni, era costretto a bere superalcolici a non finire per dare prova della sua virilità. Le corporazioni sfilavano come gruppi di squadristi: e se i fornai brandivano degli innocui Brezel, i sarti impugnavano delle forbici enormi e insanguinate.
Bösch muoveva il personaggi sulla scena con una cura estrema per la recitazione, facendo apparire tutto naturale e molto fluido. Walther era un giovane vagabondo, un moderno Wanderer, con chitarra, borsone, giacca di pelle. UN ribelle che “se ne fregava” delle tradizioni, delle regole, dei premi, degli onori, distruggeva a mazzate un busto di Wagner, strappava le pagine dei libroni dei Maestri, beveva birra, si arrotolava sigarette, amoreggiava con Eva in ogni angolo di strada, anche sul furgone di Sachs, e alla fine se la portava via rifiutando la titolo di Maestro Cantore. Al suo debutto in questo ruolo, Jonas Kaufmann interpretava molto bene questo personaggio irascibile e strafottente, anche piuttosto antipatico, che si muoveva con agilità sulla scena sfoggiando il suo bel color baritonale, l’ottimo fraseggio, una tecnica raffinatissima, ma con una voce che tendeva a disperdersi nel grande spazio scenico.
Walther era il vincitore della gara di Norimberga, ma a Monaco il più applaudito è stato il suo rivale, Sixtus Beckmesser, interpretato da uno strepitoso Markus Eiche: Bösch he ha fatto un personaggio goffo e commovente, che cantava accompagnandosi con un ukulele, e che veniva deriso e bistrattato da tutti. Un imbranato e disperato, che si dava martellate sui piedi, che mostrava candidi sentimenti, portava i fiori a Eva, abbracciava con slancio infantile Sachs, ma poi tentava di darsi fuoco, senza riuscirci, e alla fine si sparava un colpo in bocca.
Eiche sfoderava una voce sontuosa, senza cercare mai effetti caricaturali, e la sua prova era così coinvolgente da rendere umanissimo questo personaggio, di solito antipatico o grottesco. Wolfgang Koch affrontava con sicurezza il collaudato ruolo di Hans Sachs, con la sua voce possente e piena di sfumature espressive, capace di sottolineare il senso di ogni parola, vero maestro della arte di cantare. Una scoperta è stato il tenore Benjamin Bruns, per la qualità vocale e la musicalità con la quale interpretava il personaggio di David, molto comunicativo, quasi un tenore “all’italiana”, ottimo anche in coppia con la Magdalene di Okka von der Damerau, dalla voce solidissima dal bel colore ambrato.
L’americana Sara Jakubiak faceva il suo debutto in Eva, dando al suo personaggio un carattere adolescenziale, spontaneo, con un bel timbro e grande agilità in scena. Pogner aveva la voce un po’ chiara di Christof Fischesser, che però recitava con grande autorevolezza. Ammirevole anche un veterano come Eike Wilm Schulte, 77 anni e una voce ancora a posto, che interpretava il vecchio fornaio Fritz Kothner, e veniva celebrato anche in scena con un video augurale.
La direzione di Kirill Petrenko era accurata e musicalissima, capace di mettere in luce le qualità polifoniche della partitura, di sottolineare ogni dettaglio drammatico, cambiando anche spesso colori, di unire finezza e grande energia. Staccava tempi molto elastici, accumulando la tensione con un gesto morbido, mettendo sempre al centro dell’attenzione il canto, sfruttando il magnifico suono dell’orchestra della Staatsoper e l’ottima prova del coro (diretto da Sören Eckhoff), duttile, dalle texturenitidissime, capace di straordinarie escursioni dinamiche.
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