di Attilio Piovano foto © Ramella&Giannese
ULTIMO TITOLO IN CARTELLONE, per la stagione del Teatro Regio di Torino, e si è trattato di Carmen, vero e proprio evergreen che di norma, si sa, garantisce il tutto esaurito. La sera dello scorso 22 giugno il capolavoro di Bizet è approdato nell’assai discutibile allestimento dell’Opernhaus Zürich, con la scialba (per non dire pressoché ‘inesistente’) regia di Matthias Hartmann e le scene di Volker Hintermeier in buona parte del tutto prevedibili. Una Carmen mediocrissima, quella alla quale abbiamo assistito, ed è un peccato: perché ci si aspettava davvero qualcosa in più per suggellare una stagione che ha conosciuto momenti di alto livello – lo sanno bene i lettori che forse ci hanno seguito fedelmente – con spettacoli in buon parte di innegabile rilievo.
Nonostante tutto, a fine serata lo spettacolo ha registrato complessivamente un buon successo, grazie al versante musicale (che pure conteneva luci ed ombre). Occorre riconoscerlo, un vero e proprio successo personale lo ha conseguito l’ottima Irina Lungu, non già nei panni della bella e conturbante gitana, bensì nel ruolo della mite Micaëla, tant’è che verrebbe da intitolare «Al Regio, Carmen è… Micaëla», o qualcosa di simile.
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Lo si è capito fin dal duetto con don José, «Parle-moi de ma mère» nell’atto primo, poi applausi copiosi a scena aperta nell’unica vera aria di Micaëla che possa dirsi tale, ovvero «C’est des contrabandier» nel terz’atto: pagina ricca di effluvi melodici, ibridata di raffinatezze ed eleganze squisitamente francesi, alla quale Puccini attinse a piene mani. E la Lungu ce lo ha fatto comprendere come raramente accade. Festeggiatissima a fine serata, ha finito per insidiare il successo della pur esperta Anna Caterina Antonacci che ha disimpegnato con entusiasmo e fin troppa finezza la sua parte; l’avremmo voluta più carnale, più sensuale, più ferina, sia sul piano attoriale (ma qui la colpa è della non-regia), sia pure sul piano vocale, in un ruolo che forse non le è del tutto congeniale, almeno oggidì, dacché sfodera strani passaggi di registro: a dispetto delle moltissime volte in cui ha affrontato Carmen con partner di spicco (da Kaufmann in giù). Sicché la celebre «Habanera» non ha regalato quei brividi che di solito innesca. Molto bene la scena delle carte, bene il fatalismo tragico che la Antonacci ha saputo imprimere al personaggio e bene la parte finale con il drammatico epilogo. Molto efficace il quintetto per saldezza interpretativa.
Ed ora il versante maschile; il tenore Dmytro Popov dalla voce significativa e ragguardevole (oltre che molto corposa) ha sbozzato un don José credibile, appassionato e aitante. Assai ammirato nel lungo passo in cui tenta disperatamente di riconquistare l’ormai perduta Carmen; bene poi il punto in cui, distrutto dalla gelosia, al culmine della disperazione, vedendosi gettare a terra l’anello pegno d’amore, decide di uccidere la donna e costituirsi. Non così Vito Priante nel ruolo del torero Escamillo, apparso un poco appannato e rigido, impacciato, fin troppo educato ed azzimato. Occorre un’allure più focosa; inoltre si sono registrate imprecisioni di intonazione e ritmicamente non sempre era in asse in «Toreador». Bene vocalmente Frasquita e Mercédès (rispettivamente Anna Maria Sarra e Lorena Scarlata Rizzo), ma solo la prima delle due anche convincente sul piano scenico, assai impacciata invece la sua compagna, specie nella danza.
La direzione di Asher Fisch inizialmente ha lasciato perplessi, con tempi allentati nell’ouverture, c’era un che di irrisolto, vi erano alcune ineleganze e in media poca cura dei dettagli. Poi però è andato ‘carburando’ trovando il giusto equilibrio, e allora a partire dal second’atto, soprattutto nel terzo e nel quarto, ecco che sul piano strumentale l’opera è decollata, toccando vertici di pathos nella già citata scena delle carte e soprattutto verso il finale (orchestra un po’ stanca a fine stagione, ma pur sempre in buona forma).
Il coro ha fatto benino, con qualche vistosa défaillance sul piano della dizione un po’ troppo ‘piemontese’, piccole inesattezze ritmiche la sera della prima, come sempre destinate a scomparire nel corso delle repliche; molto bene invece il coro di voci bianche (i ragazzini e le ragazzine inoltre si sono mossi davvero con naturalezza in scena, sfoggiando spigliata e sbarazzina agilità), bene dunque la preparazione a cura di Claudio Fenoglio.
Ed ora le dolenti note della regia e delle scene, anzi della scena unica, di fatto, con quella piattaforma circolare che fin dall’inizio, lo si capisce, è posta lì per fungere da arena (e nemmeno tale, a ben guardare…); e dunque già prefigura la plaza de toros. Ma che senso ha far comparire in apertura il coro dei dragoni ovvero dei gendarmi vestiti a metà strada tra poliziotti, carabinieri e vigili urbani? E poi alcune inutili gags che si potevano francamente evitare, come quella dell’insinuante e galante Moralès che strappa di mano al suo ‘collega’ un giornaletto / calendario osé…, sotto un bianco ombrellone: un po’ troppo da avanspettacolo. Scialba anche la faccenda dello strappo della corda da parte di Carmen che si gingilla con un pezzetto di cordino buono tutt’al più a legare un pacchetto. L’insegna al neon, poi, che cala dall’alto con il sigaro stilizzato ce la potevano francamente risparmiare, con una manifattura tabacchi resa in modo maldestro grazie a un’unica porta che pare da saloon e – superbo tocco di kitsch, del tutto inutile – quel cane finto acciambellato sul proscenio che poi scodinzola (con un telecomando o forse con un touch screen… chissà). Idem dicasi per il tv color sul tavolo dell’osteria di Lillas Pastia che trasmette in diretta la partita, e all’arrivo di Escamillo mostra la corrida; in primo piano un palo della luce con isolatori anni ‘50 ed una luminaria da paese che sarebbe andata meglio per Cavalleria o Pagliacci… Ma tant’è.
Efficace l’esordio del terz’atto, ma troppe banalità nella scena dei contrabbandieri; da ultimo, per l’atto conclusivo, ecco un (pur gradevole) enorme ulivo al centro della scena, la solita piattaforma circolare e in primo piano un ancor più prevedibile teschio di toro. Il coro dei bambini inneggia alla corrida (in direzione del pubblico), ma è soluzione già vista e stravista, e soprattutto si poteva evitare quell’ondeggiare di accendini, ma per favore! Non siamo a un concerto rock e poi ti pare che i ragazzini sulla piazza di Siviglia, prima della corrida, in pieno giorno col sole che accieca, si aggirino ognuno con un accendino in tasca? Ma dai… A parte questo, null’altro da eccepire sulla poca fantasia svizzera.
Pochi applausi alla direzione, molti ai cantanti (nell’ordine a Irina Lungu, all’Antonacci ed a Popov), alcuni vistosi e riconoscibili buu all’insegna della regia. Costumi francamente casuali e mortificanti (sul versante femminile) di Su Büher. Repliche sino al 3 luglio con doppio cast (Veronica Simeoni, Roberto Aronica, Mariangela Sicilia e Luca Grassi nei ruoli principali) e la direzione di Ryan McAdams per le ultime due recite.
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