di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Che il Flauto magico sia una delle opere che stanno in piedi senza avere la necessità di disporre di un grande cast, un direttore “profondo”, una regìa illuminata, è affermazione che a qualcuno potrà sembrare azzardata. Proprio di questi tempi si discute spesso sulla famosa prima aria della Regina della notte nella sciagurata “interpretazione” della Foster-Jenkins, che tra le risate ci restituisce un pochino del sublime azzardo della versione originalmente pensata dall’autore. Né in tema di surrogati si può dimenticare lo spettacolo delle marionette di Salisburgo, replicato anche a Milano in tempi lontani, che pure avendo come sottofondo la Zauberflöte di Ferenc Fricsay che guidava cantanti famosissimi, ci fece intendere quanto la fiaba di Schikaneder potesse essere proiettata in un teatro immaginario dove i protagonisti lignei sembravano trasformarsi in pochi istanti in personaggi in carne ed ossa.
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Ciò premesso, si è potuto più che apprezzare lo spettacolo andato in scena il 2 settembre scorso alla Scala, sostenuto innanzitutto dalla regìa affettuosa e per nulla prevaricante di un Maestro come Peter Stein, coadiuvato dalle scene di Ferdinand Wögerbauer e dai costumi di Anna Maria Heinreich. Simboli massonici, animali argutamente manovrati anche da piccoli mimi, il solito armamentario di campanelli, piume colorate e ovviamente l’immancabile flauto sono ancora tutti lì, come a dire che la tradizionale attrezzeria del Flauto Magico ha la meglio su qualsiasi tipo di rilettura moderna dell’opera. Alcuni particolari sono risolti in maniera davvero azzeccata, come nel caso del cammino iniziatico di Tamino e Pamina tra le acque e il fuoco o in quello del “Corale degli uomini armati”; altri si rifanno addirittura alle prime scenografie, con una Regina della notte che discende immancabilmente dal cielo stellato. Uno spettacolo, insomma, che rilegge i bellissimi luoghi comuni della tradizione registica e scenica dell’opera, a volte sottolineando con un sorriso certi aspetti che in passato tendevano a precipitare nel caricaturale. Si potevano forse risparmiare le illuminazioni al neon, pensate da Joachim Barth, che spesso offendevano l’occhio a causa della loro intensità.
Stein ha accettato di seguire i migliori cantanti dell’Accademia del Teatro alla Scala per organizzare ogni anno, e con dodici mesi di prove, un nuovo lavoro musicale: bellissimo inizio, questo Flauto magico, che ha soddisfatto ampiamente ogni aspettativa almeno dal punto di vista dell’allestimento condiviso appieno dal cast. La compagnia di canto, formata da elementi di lingua non italiana che hanno studiato appunto a lungo con i responsabili dell’allestimento, si è mossa con grande naturalezza nel percorso ideato da Stein, ma non sempre ha prestato voce in maniera adeguata ai doveri puramente musicali. Molto bravi Martin Piskorski (Tamino) e Fatma Said (Pamina); sovracuti (quasi) a posto per la Regina di Yasmin Özkan, che però non osservava l’elementare solfeggio nelle battute precedenti i passaggi più impervi; grande attore ma cantante che non faceva rimpiangere gli esempi del passato Till von Orlowsky, acrobatico e simpaticissimo Papageno; basso paternalmente autoritario che si perdeva però nel registro grave – e non è poco – era infine Martin Summer quale Sarastro. Bene gli altri, con le discinte Damen, i genietti che sono sempre un poco stonati, un Monostato fin troppo sopra le righe, l’appassionata, cicciottella e divertente Papagena. Adam Fischer, che ricordavamo senz’altro più presente nel Flauto scaligero di trent’anni fa, non è sempre stato pronto a contenere il difficile assieme, ma ha contribuito a tratti a illustrare il lavoro di Stein con una direzione affettuosa e per nulla accademica. Entusiasta il pubblico (moltissimi gli stranieri) che rideva di gusto alle bravate di Papageno.
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