di Alberto Bosco foto © Javier del Real
Quando in una Norma è Pollione che alla fine prende più applausi di tutti e dopo «Casta diva» in sala c’è il gelo, qualcosa evidentemente nello spettacolo non ha funzionato. Una produzione sbagliata può capitare a tutti, anche nei migliori teatri e con i migliori artisti, quel che è interessante è cercare di capire perché questo allestimento visto al Teatro Real di Madrid e già andato in scena all’opera di Valencia, non sia riuscito a convincere. Intanto va chiarito che cos’è che rende Norma un’opera così unica. In Norma Bellini riuscì per la prima volta a dare a un melodramma italiano a numeri chiusi un senso autentico di unitarietà drammatica, grazie alla presenza di un personaggio principale che va via via scoprendo in se stessa l’esistenza di una realtà più vera e alta di quella esteriore, quella di un sentimento d’amore che solo in un aldilà può trovare compimento.
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In questo senso si può dire che Norma sia una vera sacerdotessa, ma non del culto di Irminsul, di cui a noi e a lei non importa niente, ma di quella forma pura di libertà interiore che è l’amore, di cui si fa portavoce nel finale, rivelandolo come una profetessa a una torma di barbari pagani e convertendo al questo suo nuovo culto anche l’insulso Pollione, illuminato alla fine da questa verità e pronto a immolarsi insieme alla donna amata. Così in Norma, nonostante l’apparente conformismo con il consueto modello d’opera in cui una situazione storica esterna compromette la felicità di una coppia, grazie all’altezza sublime della musica e alla continuità dell’ispirazione il lato interiore della vicenda ha nettamente la meglio, come si accorsero tutti i grandi romantici da Chopin a Wagner. Così, la musica agisce su due livelli, quello esteriore, violento e drammatico del mondo esterno, e quello statico contemplativo e commovente dell’interiorità, che trova nell’immortale «Casta diva» una realizzazione di tale livello che tutto ciò che seguirà suonerà ai nostri orecchi come una variazione di quest’aria. E non è un caso che le parole dell’aria, rivolte alla luna e di carattere rituale, nessuno le percepisca essendo il senso di questa contemplazione tutt’altro, trasmesso da una musica che attraverserà come un fiume sotterraneo tutta l’opera per emergere catarticamente e in modo esplicito solo nel finale, che è infatti un grande momento di trasfigurazione ed elevazione.
Ora, perché tutto ciò funzioni, ci vuole una protagonista capace di incarnare la travagliata evoluzione psicologica di Norma la quale, prima di soggiacere all’inesorabilità del sentimento, attraversa tutte le fasi di ribellione interiore (disperazione, illusione, vendetta) che ne fanno un essere umano e non un’allegoria; ci vuole poi una direzione d’orchestra capace di reggere la tensione emotiva e l’arcata ampia della drammaturgia belliniana; e infine una regia che non appesantisca il lato puramente esteriore e accessorio della vicenda e sappia assecondare l’emersione di questa calda fiamma spirituale che a poco a poco getterà tutto e tutti sullo sfondo innalzando Norma e il suo innamorato. Tutto ciò è mancato a Madrid. Maria Agresta è una cantante bravissima, vocalmente sicura e stilisticamente a posto, ma non si capisce se è per deliberata scelta interpretativa o per carenza di temperamento drammatico che abbia dato vita a una Norma fredda e impassibile, altera fino alle soglie del finale, dove grazie al cielo qualcosa si è mosso e la temperatura si è finalmente scaldata. Anche Marcello Abbado è sembrato rigido e privo di un afflato lirico spontaneo, così che i migliori momenti sono stati quelli propiziati dall’estro teatrale di Gregory Kunde (Pollione) o di Karine Deshayes (Adalgisa), sui quali da buon accompagnatore egli si è subito sintonizzato. Però il risultato finale fu slegato e privo di quella tensione interiore che fa da spina dorsale al dramma.
Colpa anche della messa in scena troppo carica di Davide Livermore che si è sbizzarrito nel declinare in stile fantasy tutto l’armamentario storico-druidico, prendendolo così alla lettera da inventarsi un’apparizione, dopo quel po’ po’ di finale di cui si è detto, addirittura del figlioletto della coppia brandente un pugnale in segno di vendetta, come se si trattasse di una saga d’avventura cui potrebbe far seguito una Norma 2. Più che la recitazione stentorea e stereotipata, che in fondo faceva tutt’uno con l’artificiosità dell’ambientazione, quel che più ha compromesso la musica sono state le continue e invadenti proiezioni video che nelle intenzioni del regista dovrebbero forse favorire un’immedesimazione più emotiva con la musica, ma che di fatto la sotterrano, relegandola al ruolo ancillare di colonna sonora.
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