di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Il cammino intrapreso da Riccardo Chailly nel 2015 con il recupero di Giovanna d’Arco si arricchisce oggi di un nuovo tassello verdiano che vede la principale ragion d’essere nella rinnovata edizione critica di Attila edita da Ricordi, contenente numerose e importanti occasioni di rilettura. Attila, opera andata per la prima volta in scena a Venezia nel 1846, è lavoro di transizione che ha vissuto nel corso del tempo una vicenda esecutiva simile a quella di tante altre opere del primo Verdi, con una concentrazione di rappresentazioni nell’epoca della creazione e un salto temporale considerevole che la vide completamente assente dalle scene del teatro milanese. Di contro la storia di Attila alla Scala conta su decisive riprese all’inizio degli anni ’90, soprattutto quella di Muti con la regìa di Savary che era ricca di coup de théâtre (è rimasto famoso l’ingresso del protagonista in scena su una “pedana vivente” composta dalle braccia dei suoi soldati). Il soggetto storico era già a quei tempi davvero stimolante perché legato a un momento narrativo particolare, con l’identificazione tutta risorgimentale tra Unni e oppressori austriaci, e alla tradizionale connotazione negativa di un personaggio molto discusso per la sua componente sanguinaria. Spunti questi che il musicista, attraverso il libretto di Solera tratto per volontà dello stesso compositore dalla tragedia di Zacharias Werner (1808) e le ulteriori suggestioni della Staël, sfrutta anche attraverso l’immancabile componente di tensione amorosa (e di odio), il triangolo tra i protagonisti (Attila, Odabella, Foresto) che si fa ovviamente anche triangolo dal punto di vista delle sfide prettamente canore. Di più, Verdi spinge molto in là la caratterizzazione drammatica e vocale dei personaggi – soprattutto nel caso di Odabella, che è il ruolo sicuramente più complesso visti i sentimenti contrastanti che la muovono – ponendo le basi per un processo che proseguirà negli anni con tensione costante e che approderà presto a risultati quasi definitivi.
Di invasioni, barbariche o meno, del contrasto tra oriente ed occidente, si parla ancora a i nostri tempi e se decisamente meno attuale è la figura salvifica della Chiesa, un regista può procedere nel suo lavoro di reinterpretazione di Attila sfruttando diversi gradi di libertà e lo scenografo può oggi utilizzare moderne tecniche visuali per arricchire l’allestimento con effetti che vanno ben al di là di quelli ottocenteschi un poco naïf che accendevano peraltro l’immaginazione degli spettatori (spesso il non visto, l’immaginato può avere valenze espressive che sorpassano qualsiasi diavoleria o macchinazione scenica). La componente politica del soggetto è vissuta dal regista Davide Livermore (al suo primo Verdi giovanile e alla sua terza prova scaligera) attraverso una collocazione temporale genericamente novecentesca, con la presenza di eserciti tra loro contrapposti. Unni e Romani sono così posti su un piano paritario perché, almeno dal punto di vista dei costumi (di Gianluca Falaschi), le uniformi sono praticamente le stesse, variando solamente la tinta del tessuto. Nessuna esplicita forzatura portava a identificare le truppe unne con qualcosa che aveva a che fare con le divise tedesche della prima o della seconda guerra mondiale: ben più diretta era stata ai tempi una identificazione ideale tra Unni e Austriaci, questi ultimi davvero vissuti nel Risorgimento come responsabili di tutto il male possibile. Quanto a una possibile lettura di Attila e dei suoi visti in riferimento agli attuali equilibri politici italiani, diciamo trattarsi di una interpretazione di parte e probabilmente non voluta da Livermore. È vero che impressionanti sono state le ovazioni tributate dalla ricca platea scaligera al Presidente della Repubblica, che qualcuno ha letto come un “si salvi(ni) chi può”. Ma non dimentichiamo quale sia il livello numerico di rappresentatività della platea stessa, pur formata da elementi ad alto peso specifico come Monti o il Sindaco Sala.
Livermore ha creduto in un Verdi che interpreta Attila, personaggio tradizionalmente e storicamente negativo, come figura che ha qualcosa da insegnare agli italiani in termini di etica, e qui nessuno gli può dare torto vista la proposta indecente di spartizione dell’Impero che il generale Ezio propone al barbaro. Da qui a considerare addirittura Attila come personaggio che in questo modo sottolinea i valori di coesione nazionale forse il passaggio non è così implicito, ma è vero che – regìa a parte – l’impressione dello spettatore al termine della recita è che tutto sommato Attila rappresenti il carattere più positivo nell’insieme. Ma è un’impressione che deriva dal testo originale, o ancora da una chiara benevolenza musicale da parte dello stesso Verdi, non da uno specifico volere del regista. In ogni caso se il “credo” fondamentale di Livermore è quello di considerare il ruolo del registra stesso come “decoder” tra il tempo in cui è avvenuta la creazione di un’opera e la contemporaneità non si può che apprezzare il suo sforzo di trovare i necessari strumenti per operare qualsivoglia trasformazione di vedute.
Lo studio Giò Forma di Florian Boje e Cristiana Picco ha avuto la responsabilità dell’apparato descrittivo che comprende la presenza di pareti frontali di video che integrano la parte di scenografia più tradizionale. Il tutto tende giustamente a enfatizzare i momenti chiave dell’opera già indicati da Verdi attraverso Solera, dalla scena della tempesta a quella dell’alba-aurora sulla laguna nel Prologo (luogo elettivo, quest’ultimo, fin dai tempi delle prime rappresentazioni), fino al sogno di Attila nell’atto primo. Da qualche tratto di colore per evocare l’alba sulla laguna veneta nelle scenografie d’un tempo si è passati a un effetto che forse sulla carta avrebbe dovuto risultare più pregnante, ma che è probabilmente stato sacrificato in vista della ripresa televisiva in diretta. La prima scena si apre con una visione apocalittica di una città distrutta dalla guerra, che sia Aquileia o Dresda poco importa. In primo piano un ponte integro, che più tardi si dividerà in due parti, dopo il fallimento della trattativa tra Ezio e Attila. Più avanti il ponte spezzato avrà la caratteristica di raccordare idealmente il campo militare degli Unni e quello dei Romani, nei pressi della capitale. La raffigurazione di una costruzione massiccia piena di iscrizioni romane nell’atto secondo vira poi l’attenzione su richiami alla Piranesi. Le luci di Antonio Castro, i video di d-Wolk, agenzia di Paolo Gep Cucco specializzata nei processi di “projection mapping” e di “warping” (distorsione digitale delle immagini) fanno il resto, decomponendo più volte nel corso dell’opera le immagini proiettate delle rovine di guerra o, nel caso dell’arrivo di Papa Leone, vivificando l’affresco di Raffaello raffigurante la stessa scena, prima proiettata in bianco e nero e poi a colori, segno della vittoria della fede e della buona riuscita della missione papale. Nubi insistenti e angosciose sono anch’esse proiettate assai spesso, così come un tentativo di “peggiorare” la figura di Attila è quello di mostrare un filmato dove lo stesso si comporta finalmente da perfido uccisore del padre di Odabella, la stessa raffigurata come bimba in preda al terrore.
Meno riuscito è l’intervento registico e scenografico nell’atto secondo, dove il campo di Attila, idealizzato qui in un palazzo, evoca scene probabilmente suggerite da richiami cinematografici molto noti (Il portiere di notte della Cavani e La caduta degli dei di Visconti) mescolando donne, uomini, travestiti discinti in una mescolanza di non facile interpretazione narrativa. Non ci soffermiamo sugli incidenti di percorso che hanno movimentato come spesso accade le acque già agitate della preparazione della “prima”: la scena della statua della Madonna scaraventata per terra, censurata grazie all’intervento di un sindaco troppo osservante, la presenza del ponte che traduce la didascalia originaria (“bosco che divide il campo di Attila da quello di Ezio”) e che non crolla per evitare spiacevoli riferimenti alla recente tragedia genovese sono dettagli sui quali non conviene insistere.
Se la componente visiva dell’allestimento ha attirato su di sé grande attenzione, più curiosa, dettagliata e se vogliamo specialistica è stata invece l’operazione di rilettura dell’opera compiuta da Chailly, che sempre collega questo lavoro di scavo con l’attenzione verso nuovi particolari emersi durante l’operazione che ha portato alla stampa di un’edizione critica dell’opera (Ricordi, 2012). Pur senza soffermarci sui numerosi dettagli del caso, citiamo solamente quelli più interessanti, primo tra tutti l’inserimento di cinque battute pianistiche aggiunte da Rossini nel 1863 (Ritournelle pur l’Adagio du Trio d’Attila) allo scopo di legare due parti tonalmente non troppo vicine tra loro. Il manoscritto è stato tradotto per la tessitura di cinque archi e così introdotto nell’edizione critica. Che questo intervento rossiniano miri in un certo senso a correggere il salto non troppo naturale tra la sospensione di un accordo di settima di dominante di do e il successivo re bemolle maggiore del terzetto è cosa ovvia. Ci si può però chiedere se veramente Verdi sia incappato in questo caso in una improbabile disattenzione o se non abbia voluto in questo modo caratterizzare un transito di particolare valenza espressiva e drammaturgica.
Altro particolare di non secondaria importanza è stato il recupero delle annotazioni verdiane relative alle indicazioni di metronomo che non erano state indicate negli spartiti d’epoca. Tali indicazioni vennero precisate successivamente da Verdi in una lettera finora inedita che è conservata alla Library of Congress di Washington. Si cita infine almeno l’inserimento nell’atto terzo della Romanza per Foresto («O dolore») scritta per la prima esecuzione alla Scala in vista delle doti vocali del tenore Napoleone Moriani, e quindi assente dalla prima “edizione veneziana”. Si tratta di una pagina di indubbia bellezza caratterizzata da un affascinante accompagnamento di arpe. Chailly ha come di consueto operato un processo di sintesi non certo facile lavorando sia sull’impianto critico che sul rapporto tra esecuzione musicale e spettacolo, rapporto che come abbiamo visto deve tenere presente un numero grandissimo di dettagli derivanti dall’allestimento scenico e registico. La sua lettura ha temperato una visione tradizionalmente accesa dell’opera e ha posto l’attenzione su un fraseggio più delicato anche nei passaggi ribollenti di ardore. Una visione che diremmo complementare rispetto a quella di Muti, decisamente rivolta a esaltare il Verdi più sanguigno.
In mezzo a questo procelloso mare dovevano navigare con sicurezza i cantanti, che tutto sommato si sobbarcano lo sforzo più vistoso, compreso quello di affrontare un cabalettismo che non è la caratteristica migliore dell’opera ma allo stesso tempo è funzionale all’ordinata presentazione dei personaggi. Personaggi – e qui si individua un punto chiave dell’opera – che non sono ancora perfettamente sbalzati e offrono il destro a interpretazioni in contrasto tra loro, mostrando spesso una duplice caratteristica che può disorientare sia il pubblico che a maggior ragione l’interprete. Abdrazakov è stato un Attila magnifico, che se ha fatto un poco rimpiangere l’assertività barbara di Samuel Ramey ha d’altro canto sottolineato quella positività di carattere del ruolo cui prima accennavamo. La sua scena e aria nell’atto primo (il famoso “sogno”) ha meritato applausi di grande intensità ma tutta la sua performance si è mantenuta su un livello artistico e vocale veramente di eccezione. Saioa Hernández è riuscita a mettere a fuoco più il carattere guerriero che quello amoroso del personaggio di Odabella ma ha impressionato per una vocalità stentorea mantenuta a tutto livello nel corso dell’intera opera. Fabio Sartori, già Foresto nel 2011, si è confermato un interprete e un cantante di valore: qualche segno di stanchezza nei due ultimi atti non hanno intaccato l’intensità degli applausi al termine della sua “aria sostitutiva” nell’atto terzo. George Petean ha dal canto suo meritato l’ottimo plauso per i suoi interventi fin dal primo duetto con Attila e soprattutto al termine della cabaletta «Cara patria» e della sua scena e aria nell’atto secondo. Il suo è stato un contributo decisivo in termini vocali e interpretativi (Ezio rivela davvero inquietanti tratti machiavellici) che ha fatto tutto sommato scoprire nuove valenze per il ruolo. Al termine della recita gli applausi sono stati distribuiti equamente su tutti i componenti che hanno dato vita alla serata, iniziata come abbiamo detto con una insistita ovazione, proveniente da platea e palchi, nei confronti del Presidente Mattarella, che invano invitava i presenti a sedersi per dare il via alla rappresentazione. Qualche minimo e poco udibile tentativo di contestazione lo si è avuto non tanto per Livermore, chiaramente eccitato dal successo, tanto da agitare il pugno destro in segnale di vittoria, quanto per i numerosi responsabili delle scene, dei costumi, delle luci. Applauditissimo il coro del teatro (compreso quello di voci bianche) guidati da Bruno Casoni e i cantanti tutti con una intensità crescente partendo da Francesco Pittari (Uldino) e Gianluca Buratto (Leone) proseguendo con George Petean (Ezio), allievo di Zancanaro che cantò questo ruolo nel 1991, Fabio Sartori, la Hernández e infine Abdrazakov. Chailly ha preferito non presentarsi da solo alla ribalta, e non si è capito tutto sommato il perché, visto il consenso da lui chiaramente guadagnato durante tutto il corso dell’opera.