di Luca Chierici
La farsa musicale in quattro atti e cinque quadri di Ernesta – la madre – e Nino Rota dal vaudeville di Eugène Labiche e Marc Michel del 1851 ha avuto pochi ma emblematici successi alla Piccola Scala e alla Scala, dove si sono tenute rappresentazioni memorabili nel 1958, con la regìa di Strehler e la direzione di Sanzogno e nel 1998 con l’allestimento di Pierluigi Pizzi e la direzione di Bruno Campanella.
Il lavoro di Rota si pone quasi come una metafora dell’opera buffa con una tendenza alla successione di complicate situazioni che movimentano fin troppo il soggetto, in un fluire del tutto naturale di melodie tanto belle e “ingenue” (per il linguaggio medio novecentesco) che ci sembra di avere da sempre ascoltato. Parte di questi motivi costituiscono veri e propri leitmotiv che restano impressi nell’ascoltatore anche quando è trascorso lungo tempo dalla rappresentazione. Rappresentazione per la quale occorrono anche bravi attori oltre che cantanti e una regia che sappia cogliere ogni minima occasione suggerita e dal testo e dalla musica. Senza però esagerare nei dettagli – e qui un poco troppo attenta ai più piccoli risvolti della trama ci è apparsa la regìa pur gradevole di Mario Acampa – a rischio di confondere l’attenzione dello spettatore. Le scene girevoli di Riccardo Sgaramella in questo caso aggiungevano velocità di rappresentazione ai voleri della regìa e a volte confondevano l’idea allo spettatore che cercava di seguire la vicenda.
Pizzi aveva quasi vent’anni fa alternato l’ambientazione in case borghesi della Parigi di metà ‘800 (o in saloni di palazzi nobiliari come nell’atto II) a sfondi ricavati da dagherrotipi della Parigi reale di quegli anni. E aveva sfruttato il premaman di Elizabeth Norberg-Schulz per rendere ancora più teneramente realistica la figura di Elena, sposa novella di Faninard. Ricordo che in quella regìa davvero memorabile il pubblico era stato tra l’altro conquistato dalla scena finale in cui i due sposi, come al cinema, guardavano lo svolgersi del loro scambio di effusioni sul letto nuziale, con baci fin troppo realistici. Un pianista in scena – altra trovata non da poco – commentava le transizioni tra gli atti e alla fine, preludiando sui temi più ricorrenti dell’opera, accompagnava gli artisti che sfilavano per gli applausi. Non è riuscito ad Acampa di ripetere, pur con altri mezzi, quel miracolo nonostante tutta la buona volontà degli artisti, molti dei quali provenivano dall’Accademia di perfezionamento per cantanti lirici del Teatro alla Scala e si muovevano con precisione nel non facile garbuglio di situazioni volute dal libretto. L’opera o meglio il vaudeville originale si basa su un soggetto tanto semplice quanto ricco di spunti divertenti e di trovate senza fine. Due giovani nel giorno delle loro nozze (Ferdinand e Elena) vivono un piccolo incidente destinato a scatenare tutti gli eventi inaspettati. Il cavallo del calesse di Ferdinand addenta un cappello di paglia indossato dalla giovane Anaide che si trovava in compagnia dell’amante. Da qui nascono mille spunti che portano Ferdinand a tentare di recuperare un cappello identico per evitare che il marito di Anaide scopra la tresca della moglie. A dar voce a questa irresistibile vicenda sono stati gli allievi della già citata Accademia: Pierluigi D’Aloia era un partecipe Ferdinand, cui è chiesto di muoversi da protagonista all’interno delle innumerevoli situazioni che porteranno allo scioglimento finale producendosi anche in acuti tenorili di non facile raggiungimento, così come altrettanto impervia era a tratti la parte di Elena, sua sposa, affrontata con bravura e partecipazione da Laura Lolita Peresivana. Altrettanto validi sono stati tutti i comprimari a partire dal Nonancourt di Huanhong Li, il Beaupertuis del veterano Vito Priante, la coppia di amanti formata da Emilio (William Allione) e Anaide (Greta Doveri) e ancora la baronessa di Champigny (Marcela Rahal), Vézinet (Paolo Antonio Nevi), il caporale (Wonjun Jo) e tutti gli altri.
L’orchestra dell’Accademia era guidata brillantemente da un altro veterano, Donato Renzetti, e il coro da Salvo Sgrò. Successo e applausi da parte di un pubblico formato anche in gran parte da stranieri. Pubblico che ha tra l’altro potuto godere dei nuovi schermi che illustrano il libretto, il testo essendo inoltre proiettato al di sopra della scena.