Il pianoforte ha spesso un ruolo di mero accompagnamento, quasi un “continuo” a supporto dello strumento solista il quale ha spazio di esibire le proprie qualità ritmiche, oltre che espressive. La precisione tecnica del direttore-pianista Maurizzi qui si esemplifica col trattamento dell’articolazione, dove soprattutto le note al basso risuonano come pizzicate, come fossero corde aggiunte al violoncello. Il “Pierrot arrabbiato con la luna”, con il quale Debussy voleva intitolare questa Sonata, ci richiama ancora al legame con Boulez, proprio attraverso la figura di questa maschera triste, la cui favola straniante Schönberg musicò.
Considerata da molti il suo capolavoro della musica da camera, la Sonata in fa maggiore per flauto, viola e arpa ha sicuramente nell’organico un punto di forza e di originalità. In passato raramente la viola ha avuto parti di primo piano, al di là del Kegelstatt Trio di Mozart per trio con clarinetto e pianoforte e i pezzi, sempre per lo stesso organico, di Max Bruch, o nel Brahms dei Quintetto d’archi, a causa della sua limitata estensione. A maggior ragione è da apprezzare l’uso che ne fa Debussy, affidandole una parte impegnativa, da contralto puro, indagata sovente nel suo registro più scuro spesso a “passeggio” all’unisono o meglio all’ottava inferiore, col flauto (ah, le tanto vituperate ottave parallele!) che è invece il motore trainante di questo spettacolare lavoro. I due musicisti (rispettivamente Olga Arzilli e Mattia Petrilli) ben si calano in questo fascinoso brano. Atmosfere neoclassiche, si è detto, ma pure richiami continui al Debussy più noto, quello de La fille aux cheveux de lin dai Preludi, o nell’uso, un po’ insolito per la verità, di un 9/8 (e nel suo “doppio” 18/16) per la Pastorale iniziale, rigorosamente in fa maggiore come decretato da Beethoven in giù; al gusto un po’ rétro si sovrappone un uso moderno e sofisticato dell’arpa, l’impeccabile Emanuela Degli Esposti, bolognese di nascita, che con perizia e notevole padronanza dello strumento sostiene le due voci “a braccetto” come nel lungo arpeggio finale dell’Interlude a sostenere le lunghe campate di suono dei due soli.
Di grande effetto e modernissimo è invece il quasi furioso Allegro finale, con i tre strumenti impegnati, soprattutto la viola, in un bordone ritmico e a tratti ossessivo che chiude con una breve ripresa del primo tempo, quasi a voler indicare una certa circolarità. Siamo, lo ricordiamo, in un periodo che, pur tra i disagi della guerra e del non buono stato di salute, è di grande sperimentalismo, tra gli arcaismi delle Six Épigraphes Antiques ed i modernismi quasi jazz di En blanc et noir, entrambi affidati al pianoforte a quattro mani. Le altre tre sonate mai realizzate dovevano essere la quarta per oboe, corno e clavicembalo, la quinta per tromba, piano, fagotto e clarinetto, la sesta, scrive egli stesso «en forme de “concert” où se trouve rassemblée la sonorité des “divers instruments” avec, en plus, le gracieux concours de la contrebasse». Un’ampia gamma di strumenti, quindi, alcuni nella linea del recupero della tradizione (come il clavicembalo) che mostra come l’ultima preoccupazione di Debussy fosse rivolta a nuovi e differenti impasti sonori, e la forma cameristica come approdo conclusivo e sommatoria del proprio pensiero musicale.
È proprio la tessitura strumentale ciò che caratterizza due dei tre lavori di Boulez presentati dall’Überbrettl-Ensemble al completo. Se già il nome del gruppo ricorda Schönberg (come ci informa la preziosa guida che correda l’intera XXX edizione del Festival), la scelta dei due pezzi Improvisé pour le Dr. K. e Dérive 1, rispettivamente per cinque e sei strumenti, non è casuale, essendo questi organici molto vicini al già citato Pierrot Lunaire dell’autore viennese. L’attenzione per la forma qui è tesa spasmodicamente non più verso un serialismo radicale (ormai superato dallo stesso Boulez) ma nel rispetto direi quasi “trasversale” proprio delle proporzioni tra gli interventi dei vari strumenti. Il primo dei due brani, dedicato all’editore Alfred Kalmus fondatore della sede di Londra dell’Universal Edition e da Boulez stesso diretto per la prima volta nell’anno della sua composizione, non pare assolutamente un brano del 1969, ma, soprattutto nella versione revisionata del 2005 presentata a Bologna, è un brano in forte anticipo sui tempi. Rispettoso delle proporzioni, in quanto al pianoforte (qui affidato alle mani agili di Giuseppina Conti) sembra destinato un ruolo da “moderatore” quasi da spartitraffico tra i fiati (flauto e clarinetto) e gli archi (violino e violoncello). Pare uno schizzo sinfonico, dato il carattere anche qui rapsodico, che permea questo breve brano.
Nell’ultimo brano presentato, invece, il primo dei due Dérive, opere tra le più recenti di Boulez, e anch’esso di grande presa, l’ingresso dei toni diafani del vibrafono di Danilo Grassi in qualche modo riequilibra la sostanza sonora tra fiati, archi e percussioni, poiché al piano è dato materiale che ne evidenzia il carattere appunto di strumento percussivo. La qualità dello sviluppo del brano è ben descritta da Robert Piencikowski, considerato uno dei più importanti esperti di Boulez, che qui a Bologna ha tenuto anche una conferenza all’insegna del ciclo. Dérive è pezzo «di densità crescente, la cui fisionomia ci ricorda i trilli e gli arabeschi della Sonatine. Giunte al limite della loro estensione, queste figure lasciano il posto ad una scansione metrica regolare continuamente contrastata mediante interruzioni via via più frequenti di piccole note; al termine di un progressivo rallentando, ritroviamo la sonorità iniziale che si dilegua, rimanendo in sospeso…». In questa tessitura ben si inserisce il gesto di Maurizzi che, quasi un settimo esecutore, non solo dirige, ma anticipa con tutto il corpo le folate degli strumenti che a turno quasi si sovrappongono, come in uno “stretto” contrappuntistico. Nel dileguarsi della sonorità sentiamo un senso di panico interiore, non vera paura ma quasi spaesamento, anche se la sospensione finale sa di quiete eterna. Un brano notevole, che in qualche modo riappacifica il pubblico, anche quello ostile verso la musica contemporanea, con il pensiero estetico dell’autore. “Estetismo” è l’aggettivo giusto per definire la totalità di queste musiche. Il rischio, sempre in agguato, è di rinchiudersi a fare musica per se stessi, rischio che racchiude anche un problema meramente economico se, con le parole di Elliott Carter, «rendere commerciale la musica contemporanea è operazione che non è ancora riuscita a nessuno».
Questo giustifica i dubbi che attanagliano il sottoscritto davanti a composizioni come Domaines per clarinetto solo. Come ben descritto nell’ampia prolusione al concerto, questo pezzo, costituito da 6 pannelli musicali, nasce come risposta polemica alla tecnica del’alea di John Cage: infatti l’esecutore deve suonare i pezzi in una sequenza definita “Original”, poi rieseguirli, ognuno a rovescio secondo i dettami del serialismo, in un’altra sequenza (“Miroir”) appunto come in uno specchio. In fase di composizione queste due sequenze erano pensate a discrezione dell’interprete, poi nel corso degli anni, in linea con il suo pensiero, Boulez ha eliminato ogni indeterminatezza, bloccando l’esecutore in una griglia prestabilita. Pur contenendo elementi sonori interessanti (il clarinetto è esplorato nei suoi anfratti più reconditi, con effetti sonori e acrobazie ben sostenute dal solista) che, dati i tempi, avvicinano lo sperimentalismo di Boulez alle ricerche di Coltrane in ambito jazz, fallisce nel tentativo di spazializzare il suono facendo spostare l’esecutore lungo i due percorsi, anzi creando delle zone d’ombra sonore per alcuni settori del pubblico; inoltre credo sia abbastanza arduo chiedere oggi allo spettatore di assecondare le istanze di un’avanguardia così radicale e spesso autoreferenziale.
Resta il conforto della riuscita di questo legame con Debussy, accomunato a Boulez nell’ansia di guardare oltre, e nell’intento di demolire i miti per poi ricostruire una nuova poetica basata sulla materia più viva, il suono.
Andrea Bellini
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