
Fino al 14 luglio la celebre opera di Gaetano Donizetti nel teatro milanese. Regia di Jonathan Miller, solisti dell’Accademia scaligera
di Francesco Gala
Q uando si va a scuola da Don Pasquale, l’opera – anche se proposta nella veste rassicurante di spettacolo d’Accademia – la cantano tre professionisti su quattro. Ed è giusto che sia così. Il capolavoro buffo di Donizetti fu scritto per un quartetto d’artisti superlativi, impegnati su queste note tanto su quelle di Bellini; l’opera è I Puritani e le leggende del canto si chiamano Giulia Grisi, Giovanni Matteo De Candia (detto Mario), Antonio Tamburini e Luigi Lablache. Che buffo sia sinonimo di facile è un’eresia della quale oramai, ci sia augura, siano tutti consapevoli. Questa evidenza vale, a maggior ragione, per il titolo qui preso in esame.
L’impianto scenico consente alle voci, di non generoso volume, di avvantaggiarsi in sala grazie ad una struttura a scatole (i tre piani di stanze nel palazzo di Don Pasquale) tutta spostata sul proscenio
Don Pasquale mancava dalla Scala da diciotto anni. Un tempo che – sintomatico rispetto alla carenza di grandi artisti adatti a sostenere le parti – è sufficiente a far tornare l’acquolina in bocca a chi alla Scala ama ascoltare il belcanto e a chi, soprattutto tra i giovanissimi, non conosce questo capolavoro. Veniamo al cast dei non-accademici. È sempre un piacere ritrovare in Michele Pertusi (in carriera da ventisei anni) il belcantista esperto e, ci si augura, capace di trasmettere a sua volta i saldi fondamenti del mestiere appresi dai grandi artisti che lo hanno formato e coi quali ha molte volte collaborato. La voce al posto giusto e sonora come si conviene, Pertusi la impiega per tratteggiare un protagonista mai caricaturale, forse persino troppo castigato, ma di sicura classe, limando ogni passo ad onta di un sillabato non proprio ineccepibile nel duetto con Malatesta.
Anche da parte di Celso Albelo sono arrivati i momenti di maggior gusto nella serata grazie ad una voce omogenea che si esprime in una linea di canto nitida e in un fraseggio piuttosto eloquente. Dispiace, invece, per il Re al termine della cabaletta, fuori fuoco e riaggiustato in corsa. Decisamente di segno differente è la prestazione di Christian Senn (ex accademico in carriera da anni) già dalla brutta cadenza con la quale ha concluso «Bella siccome un angelo». Qui e altrove si riconosce una voce ingolata e che non può rendere giustizia alle brillanti agilità nel duetto con Norina.
Il motivo d’interesse accademico risiedeva, dunque, nella protagonista femminile. Nella vocalità di Pretty Yende si riconosce con evidenza il modello della sua preziosa insegnante, tanto che già il recitativo della cavatina denuncia una trascrizione quasi letterale della stessa. Nulla di strano in un’artista ai primi debutti che, certo, deve ancora costruire una propria identità, comunque orientata ad un’eleganza pregevole nella quale si riconoscono i segni di uno studio del canto che la colloca ben al di sopra di parecchie sue giovani colleghe e che, si spera, si accompagnerà nel tempo ad una oculata scelta di repertorio per la quale Norina rappresenti non il punto di partenza ma quello di arrivo per un prossimo riesame; tanto più che il timbro di soprano leggero è particolarmente accattivante e la voce suona piuttosto rotonda. Sono invece da costruire meglio gli acuti che non risultano a fuoco (sceglie una versione semplificata per cantare il Do della cavatina) e le agilità – moltissime e per nulla semplici – dovrebbero essere più fluide.
Solo Giovanni Antonini riuscì ad addomesticare la compagine orchestrale dell’Accademia e a portarla a livelli davvero sorprendenti per una formazione giovanile. In due splendide occasioni: Ascanio in Alba (2006) e Le nozze di Figaro (2008). Lo stesso miracolo non riesce ad Enrique Mazzola, a partire dalla Sinfonia slentata e con inopportuni effetti bandistici della grancassa. Nel complesso risultano assai migliori i legni degli archi e degli ottoni. Ma la tromba che preludia all’aria di Ernesto riscatta la prova. Più che sufficiente il Coro, che forse andrebbe rinforzato nella sezione dei Bassi.
Lo spettacolo d’importazione testimonia che è facoltà del teatro proporre allestimenti di valore piuttosto che produrre la milionesima recita di Don Giovanni. L’impianto scenico consente alle voci, di non generoso volume, di avvantaggiarsi in sala grazie ad una struttura a scatole (i tre piani di stanze nel palazzo di Don Pasquale) tutta spostata sul proscenio. Garbate controscene animano la regia di Jonathan Miller che forse pecca solamente nella soluzione inventata per il finale nel boschetto; o, meglio sarebbe dire, nella sua assenza. L’esterno dell’abitazione – dopo un cambio a vista un po’ troppo rumoroso – è in realtà la strada, sulla quale indugiano Don Pasquale e Malatesta ascoltando la serenata di Ernesto. Ma, se intendono il suo canto, come non riconoscere anche la sua identità e quindi svelare anzitempo l’inganno? Perché, in un allestimento tanto illustrativo non inventare anche una soluzione per riambientare la scena, magari grazie ad un controsipario o ad effetti di luce e proiezioni?
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