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Christian Zacharias con l’Orchestre de Chambre de Lausanne, Orchestra e Coro del Regio diretti dal raffinato Bertrand de Billy: questi ed altri interpreti nel versante torinese del festival MiTo – Settembremusica
di Attilio Piovano
M iTo, sesta edizione, volge ormai al termine. Molti – dopo l’inaugurazione di cui già si è riferito su questo sito – gli appuntamenti di rilievo che abbiamo seguito sul versante torinese e che hanno registrato, in media, grande successo di pubblico e ampi consensi di critica. Impossibile riferire nei dettagli di un Festival ancora una volta variegato ed ampio, con un’offerta numericamente cospicua, nonché di buon livello, per di più ‘spalmata’ in pratica su tutti i settori musicali: dal sinfonico alla cameristica, dalla musica sacra al melodramma, dall’antico al contemporaneo (per limitarsi alla cosiddetta ‘classica’ «…la chiamano classica, ma è sempre contemporanea…» così lo slogan del ‘nostro’ corrieremusicale); classica cui occorrere aggiungere il jazz e la danza (generi dei quali non abbiamo né competenza né giurisdizione), il filone etnico, la canzone d’autore – il sempre amato Paolo Conte che il 21 settembre ha registrato il sold out al Regio – e molto altro ancora. Proponiamo dunque ai fedeli lettori solo alcune sottolineature e riflessioni critiche, spigolando dai taccuini di ascolto che in queste impegnative giornate settembrine si sono andati infittendo rapidamente.
E cominciamo dalla full immersion beethoveniana che Christian Zacharias ha tenuto al Lingotto, la sera di venerdì 7 settembre nella doppia veste di pianista e direttore alla guida dell’Orchestre de Chambre de Lausanne (compagine di buon livello rivelatasi in valida forma). Coraggioso il programma: in scaletta campeggiavano infatti di Beethoven «Secondo», «Terzo» e «Quarto Concerto». Zacharias (dirigendo l’orchestra dalla tastiera con mano salda e sicura) dell’op. 19 ha esaltato il carattere mozartiano; nella cadenza ha fatto comprendere quanto Beethoven apra spiragli sul sonatismo all’epoca ancora in buona parte di là da venire, coglieva bene il pathos dell’Adagio e lo humour arguto del Finale. Ancora una patina di mozartismo nel «Terzo», forse fin eccessiva, ma con un 2° tempo assai intenso. Una lettura in complesso sobria (fin troppo misurata a dire il vero) e lontana da eccessi, come se Zacharias temesse di conferire all’op. 37 un colore troppo romantico. Superbo, invece, è risultato il mirifico «Quarto» (appena qualche asprezza negli archi, entro il tempo lento) interpretazione che ha strappato applausi convinti ed un adamantino bis scarlattiano, confermando Zacharias pianista di gusto e di prima classe, dalla tecnica precisa, cui unisce buone doti direttoriali.

A Debussy, nella ricorrenza del 150°, MiTo ha dedicato non pochi concerti, in qualche caso vere e proprie monografie. Molto apprezzata la raffinata interpretazione della (relativamente rara) «Damoiselle élue» con Orchestra e Coro del Regio affidata alle cure del raffinato Bertrand de Billy, giovedì 13. Grazie alla voce stupenda di Heidi Brunner e ad una concertazione volta a mettere in luce mille dettagli e una quantità di preziosità armonico-timbriche, la bella pagina giovanile, su testo del poeta e pittore pre raffaellita Dante Gabriele Rossetti, ha regalato vivaci emozioni (un po’ sbiadita, invero, almeno in apertura, la voce di Marina Viotti, nel ruolo della récitante). Ottimo e charmant il coro istruito da Claudio Fenoglio. In precedenza si era ascoltata, sempre di Debussy, la poco eseguita «Fantasia per pianoforte e orchestra»: non è affatto un capolavoro, non la si sente mai e non è un caso, è un pezzo ibrido e anche un po’ troppo verboso. Solista non eccelso André Gallo dal gesto lezioso, non ha fatto molto per attenuare i difetti della pagina; gli spetta a onor del vero il merito di aver affrontato un brano poco accattivante dove lo strumento è per lo più integrato in orchestra, con quella zona mediana onirica, un po’ musica da film d’alto livello, un po’ musica d’atmosfera, con tutto il rispetto per il sommo Achille Claude che la conclude con un che di cavalleresco, senza però riuscire a farla decollare de tutto. Gallo ha poi offerto come bis un brano di Poulenc. La serata si era aperta con le «Gymnopédies nn° 1 e 3» di Satie orchestrate da Debussy: superba la n° 3, con quell’andamento vago e quella sublime ed estenuata indeterminatezza, come un vagare tra la nebbia e le brume, pagina resa da de Billy con una rarefazione e delicatezza davvero uniche, ben assecondato dall’Orchestra del Regio che ha poi brillato nei «Trois Nocturnes» dalle conturbanti sinestesie, specie in «Fêtes» dalle sgargianti immagini sonore. Peccato invece che «Sirènes» sia stata affrontata – a nostro avviso – con eccessiva e fiacca lentezza, facendo perdere in souplesse (ottima la prova delle voci femminili del Coro del Regio). Bis al fulmicotone con la «Farandole» da «L’Arlésienne» di Bizet eseguita con trascinante ed energetica animazione: un vero clou di elettrizzante brio.
Ancora sul versante debussiano da segnalare la serata monografica dedicata all’universo da camera con il concerto di Accardo and Friends (martedì 11, in Conservatorio). Laura Manzini alla tastiera ha egregiamente sostenuto dapprima Rocco Filippini nella «Sonata per violoncello» cui mancava però un poco lo spirito… debussiano, quanto a sonorità, quindi ha accompagnato nella sempreverde «Sonata violinistica» Accardo stesso che, salutato (prima e dopo) da vere ovazioni, sempre amatissimo a Torino, conserva tuttora il suo proverbiale magnetismo, pur al culmine di una carriera che si protrae ormai da mezzo secolo. Benino la fascinosa «Sonata per flauto, viola e arpa» (Andrea Oliva, Francesco Fiore e Elena Gorna), velata qua e là da qualche occasionale opacità. Da ultimo il sublime «Quartetto».

Lodevole, poi, l’idea di affidare a ben sette giovani pianisti (per lo più cresciuti entro il vivaio dell’Accademia di Imola) l’integrale dell’opera pianistica di Debussy. E si trattava di Shizuka Susanna Salvemini, Juliana Steinbach, Pietro Beltrani, Alessandro Tardino, Pietro Gatto, Giovanni Doria Miglietta e Antonio Di Dedda che a Torino si sono avvicendati sullo Steinway del Teatro Vittoria (analoga maratona anche a Milano), affrontando una vera integrale, comprendente cioè anche le pagine meno eseguite ed alcuni pezzi postumi. Abbiamo ascoltato il solo Beltrani che ha interpretato il «Secondo libro» degli impervi e distillati «Studi» con tecnica già matura e sonorità talora un po’ troppo granitiche. Di «Pour le piano» ha ben colto lo spirito neoclassico, sia pure con qualche intemperanza qua e là, apprezzabile l’ironia posta nelle deliziose «Images oubliées» così pure nel «Petit nègre» e buono l’aplomb per le raffinatezze di «Masques». Ha gusto, buona sicurezza (data l’età) e stoffa da vendere e crescerà ulteriormente, ne siamo certi. Per chiudere (al di là di Debussy), da segnalare l’immancabile tutto esaurito per Uto Ughi (il 15 al Lingotto) che ha spaziato dal suo adorato Kreisler (il bizzarro violinista compositore che di volta in volta imitava Pugnani, Corelli ed altri) a Chausson e Saint-Saëns passando per il Mozart del «K 216»: un Mozart che altri violinisti oggi suonano certo con dissimili atteggiamenti stilistici, un Mozart per così dire d’altri tempi, ma che Ughi riesce a rendere sempre attraente, facendo poi scrosciare di applausi l’intera sala col moto perpetuo dell’immarcescente «Ridda dei folletti» del buon Bazzini e, più ancora, commuovendo con la cantabilità della sua cavata e col suo Guarnieri dal suono corposo e scuro nella sempre gradita «Méditation» dalla «Thaïs» di Massenet. Infine un brivido di spleen con la nostalgia languorosa di «Oblivion» di Piazzolla e un retrogusto di sensualità da bassi fondi di Buenos Aires. Niente affatto memorabile, invece, la pur deliziosa «Simple Symphony» di Britten nella lettura dei Virtuosi di Roma.
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