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Il noto cantante pop debutta alla regia con l’opera di Domenico Cimarosa, in scena a Novara. Quando il Settecento diventa punk, tra ammiccamenti e manichini (di Morgan). Carlo Goldstein ha diretto l’Orchestra Filarmonica italiana
di Laura Bigi
I l novarese Teatro Coccia, come purtroppo molti altri teatri ed enti lirici italiani, ha dovuto affrontare nei mesi scorsi, e affronta tuttora, la realtà di un dissesto finanziario importante. Congedato tra molte polemiche (anche politiche) il precedente direttore artistico e sovrintendente Carlo Pesta, ora con un organigramma rinnovato il teatro vuole di iniziare la sua stagione al meglio delle possibilità. Perché, si sa, quando c’è un cambio al vertice si cerca di ripartire con ottimismo, con entusiasmo, col “botto” (?). Bisognava pensare e fare qualcosa di nuovo, di giovane e stuzzicante, magari vagamente trasgressivo (almeno rispetto alle pacate abitudini novaresi): insomma qualcosa in cui ci fosse lo zampino di Morgan, altrimenti detto Marco Castoldi.

L’idea concilia più o meno pacificamente diverse esigenze: creare curiosità nel pubblico attraverso il coinvolgimento di un noto personaggio (ora soprattutto della tv, ma prima di tutto della musica) carismatico, dall’immagine forte, fuori dagli schemi della pacifica e ordinata vita di provincia, fuori dal mondo dello spettacolo d’opera; realizzare un progetto autonomo e del tutto nuovo rispetto a ciò che le stagioni precedenti avevano sempre offerto; attrarre in maggior misura gli spettatori giovani, quelli che la tv la guardano e che sicuramente conoscono il temperamento bizzoso e trasgressivo del Morgan, nella speranza di conquistare pure il placet del pubblico ordinario e un po’ agé.
Un esperimento o un’operazione di marketing, sia quello che si vuole; ma, diremmo subito, riuscito, e che certamente avrà giovato agli utili, vista l’affluenza degli intervenuti. D’altra parte, essendo Marco Castoldi musicista abituato a mettere sempre bene in chiaro il suo proprio pensiero creativo, non c’era da dubitarsi che anche questo Matrimonio segreto gli somigliasse parecchio ed anzi lo citasse e coinvolgesse.
Siccome il soggetto – giocoso, vivace, titillante quanto basta per lasciare spazio alla levità dell’amore – del libretto di Bertati lo consente e così pure la musica di Domenico Cimarosa, complessivamente il lavoro di regia si realizza per il tramite di alcune trovate un po’ pungenti che rivalutano la vicenda nell’attualità volendo però evidenziare il messaggio di valori (sociali, storici, sentimentali) di cui l’opera è di esempio. Detto ciò il tutto si gioca sulla consapevolezza della finzione teatrale (quindi svelata), cioè di quella distanza tra la rappresentazione e chi la crea e chi la vede che si tramuta in vicinanza ideale ed emotiva all’universo della narrazione. Lo spettatore sa di esserlo perché accolto dai titoli di testa, come al cinema, proiettati in tridimensione ed è spesso destinatario degli sguardi ammiccanti, dei gesti allusivi e delle battute degli interpreti/personaggi. Poi c’è anche il narratore/Morgan che non perde certo l’occasione per intervenire nel dramma, cioè nell’azione, quando all’inizio del II atto (scena terza: Paolino tenta di parlar chiaro confessandosi a Fidalma, zia della sua amata e già segretamente moglie Carolina) crea un terzo carattere, una voce intrusiva che negli a parte invece è solo interiore ai personaggi; e quando nel finale balla tra baldoria e canti e contentezza insieme alle comparse e ai protagonisti. E comunque sul palcoscenico lui Morgan c’è quasi costantemente, seppure in forma di manichino, come il cantautore opportunamente abbigliato e acconciato.
Non è solo una questione di manichino, perché, invero, tutti quanti i personaggi si sono, chi più chi meno, adeguati al loro stravagante istruttore. Se la scena (Patrizia Bocconi) è piuttosto minimale (vedi la carcassa di costruzione in cemento industriale che troneggia nel fondo e che accoglie qualche volta i personaggi e in altri momenti le comparse di nero vestite con capigliatura africana duplicanti l’azione narrata o agita) con qualche tocco di sgargiante dato dalle poltrone simil-barocche (Magis Proust disegnate appositamente dall’architetto Alessandro Mendini), i cantanti indossano costumi (Giuseppe Magistro) ispirati ad un abbigliamento che gli esperti direbbero punk/rock/grunge, ma più garbato, insomma senza borchie. Divertenti anche le parrucche settecentesche spettinate e spruzzate di fluo come graffiti (Morgan è un tricomaniaco).
Nota di molto merito al cast, che bene interpreta la musica e i gesti nell’azione. Bruno Praticò è un azzeccatissimo Geronimo; oramai più che a suo agio nei ruoli buffi ai quali sa dare la giusta caricatura, qui si diverte ad esaltare l’idiozia del suo personaggio che consiste nell’esser per lo più sordo, tranne che al tintinnio del denaro. Orgoglioso nella sua figura anche fisica di buffo, intona con sicurezza le sue parti. Altrettanto disinvolti nei gesti canori e non Edgardo Rocha (Paolino) e Stefania Bonfadelli (Carolina), perfetta coppia di giovani innamorati appena (e segretamente) convolati a nozze e perciò desiderosi di consumare – e il regista ci tiene a sottolineare questo lieto aspetto dell’amore. Pulito e leggero il timbro di Rocha, non privo di quelle sottigliezze espressive necessarie alla sua voce di tenore; altrettanto saldo e senza sbavature il canto della Bonfadelli, civettuolo o accomodante all’occasione.
Buona prova anche per Maria Costanza Nocentini (Elisabetta) e Irene Molinari (Fidalma, voce vagamente gutturale ma ben nel personaggio). La prima interpreta assai bene la parte della sorella bruttina e petulante, invidiosa della giovane parente e rivale Carolina, che ruba a lei le attenzioni del Conte Robinson (Filippo Fontana, molto bravo attore e voce corretta), con la seconda a favorirla perché innamorata di Paolino. Tutti quanti si esibiscono in gesti giustamente distorti come da tic o in smorfie sguaiate di disapprovazione, di stupore, di schifo etc. Contribuisce ad un risultato generale di grande godibilità la direzione di Carlo Goldstein alla testa della Orchestra Filarmonica Italiana. Sobrietà di volume e ritmi, scorrevolezza gentile graziosa come si conviene ad un’opera che non possiede certe delicatezze alla Mozart, la cui suggestione è ben presente, né ancora la brillantezza frenetica di Rossini. E finalmente i fiati suonano in tono!
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