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Opera • In scena al Teatro alla Scala l’opera di Wagner, allestimento in coproduzione con l’Opernhaus di Zurigo e del Norske Opera & Ballett di Oslo
di Luca Chierici
Come è oramai consuetudine, l’attenzione verso ogni nuovo evento musicale nei teatri d’opera è assorbita in gran parte dalla messa in scena, vuoi per il proliferare di nuove proposte che tentano di rimpiazzare le produzioni tradizionali, vuoi per la mancanza di talenti in grado di spostare i motivi di maggiore interesse sulla componente vocale o di concertazione. È successo ancora l’altra sera alla Scala, dove si teneva la prima rappresentazione di Der fliegende Holländer, allestimento in coproduzione con l’Opernhaus di Zurigo (dove lo spettacolo ha debuttato nel dicembre del 2012) e del Norske Opera & Ballett di Oslo. Come da teorema prevedibile, il successo di pubblico ha premiato tutti i protagonisti della serata tranne il regista, motivo per cui ci sentiamo in dovere di partire per questa recensione proprio da Andreas Homoki e dalle sue idee espresse attraverso le scene e i costumi di Wolfgang Gussmann. Homoki parte da una scelta di fondo che di per sé avrebbe avuto più di un motivo di interesse, ossia l’ambientazione del capolavoro wagneriano ai tempi del colonialismo: colonialismo tedesco, si suppone, anche se i cartigli delle mappe appese alla massiccia boiserie che dominava la scena riportavano indicazioni in inglese. L’impero guglielmino si era espanso tra il 1885 e il 1915 seguendo una tradizione plurisecolare che sembrava essere stata soprattutto appannaggio di grandi potenze come la Spagna, il Portogallo, la Francia, l’Inghilterra e l’Olanda. Una espansione che aveva toccato soprattutto ciò che rimaneva di un’Africa fatta già a pezzettini dalle altre superpotenze, e che durò ben poco, spazzata via dalla catastrofe della prima guerra mondiale.
La costa norvegese e la casa di Daland, ambientazioni indicate dal libretto dell’opera, vengono dunque trasformati in un solo grande spazio, una sorta di elegante e ricco ufficio di un compagnia marittima (potremmo identificarla addirittura con la Deutsch-Ostafrikanische Gesellschaft, fondata nel 1885) dove Daland è il borghese capitalista di turno che tutto amministra, e i marinai e le ragazze si trasformano in solerti impiegati che contribuiscono al successo dell’impresa. Una imponente cartina che comprende i territori del Deutsch-Ostafrika e del Deutsch-Südwestafrika verrà sostituita nell’atto secondo da una mappa più completa, dell’intero continente, dove si vedrà aggiunto anche il Kamerun. Più tardi la cartina verrà incendiata e la comparsa di un selvaggio seminudo in scena simboleggerà la rivolta dei nativi verso le politiche europee di occupazione. L’Olandese è un omaccione che veste una preziosa pelliccia, Senta una invasata ragazza che a un certo punto si spoglia pure e resta in tunica bianca. La scena del suo sacrificio in mare è risolta con un molto più prosaico suicidio a colpi di fucile, arma strappata al fidanzatino e cacciatore Erik. Per la trasfigurazione di lei e dell’Olandese in cielo si prega di attendere la prossima regia.

Tutto molto bello e suggestivo, ma che ci azzeccava con l’Olandese volante? I motivi scenografici originali venivano richiamati solamente da un quadro sul quale veniva proiettato un mare in tempesta a volte solcato dal vascello fantasma, e già dall’inizio era sufficiente notare il ridicolo divario tra l’andare e venire degli impiegati nell’ufficio e il rumore delle macchine del vento in sottofondo per comprendere come sia essenziale che una nuova idea registica debba rispettare assolutamente una sua coerenza interna, a rischio di cadere nel ridicolo in caso contrario. Non si sarebbero potuti prevedere dei ventilatori giganti nell’arredamento dell’ufficio? Lo spettatore ignaro della trama dell’opera avrà pensato che nella sala accanto altri addetti fossero affaccendati nelle pulizie, utilizzando rumorosi aspirapolvere. Il tentativo di comunicazione tra i marinai di Daland e il presunto equipaggio fantasma, effettuato attraverso telefoni d’epoca, era almeno conseguente alle scelte d’impianto. Non abbiamo compreso come mai il grande orologio collocato in cima alla parete lignea principale procedesse volutamente a velocità impazzita. Si accettano suggerimenti.
Confortati dalla inszenierung, la cui interpretazione richiedeva gran parte dell’attenzione da parte dell’uditorio, minor tempo abbiamo dedicato e dedichiamo qui alla componente musicale. Il direttore Hartmut Haenchen ha se non altro attaccato la tempestosa Ouverture con un impeto che rendeva subito l’idea della modernità della scrittura wagneriana, ma non si prodigava in grandi raffinatezze nel corso dell’opera, garantendo una lettura corretta che non puntava certo sui lati più intimistici. Non ci hanno impressionato come era invece nelle attese né il muscolare Bryn Terfel, spesso sopra le righe dal punto di vista vocale e pur tuttavia un Olandese più che convincente come presenza scenica, né la Senta di Anja Kampe, a tratti in evidente difficoltà negli acuti, dove la voce spesso sbiancava e assumeva un timbro sgradevole. Per entrambi l’intonazione non era certo sempre accurata. Sicuramente più interessanti erano il Daland di Ain Anger e soprattutto il fresco Erik di Klaus Florian Vogt. Importante e affrontata con grande impegno e successo era qui ovviamente la parte del coro, zeppa di quegli Hojohe! , Hallojio! e Hallohe! che suonavano ben strani come interiezioni uscite dalle bocche di compassati impiegati d’ufficio.
Der fliegende Holländer |Rappresentazione del 28 febbraio 2013 | Teatro alla Scala. In scena fino al 15 marzo 2013
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Devo proprio dire che gli allestimenti di questa stagione, non solo relativi ad opere wagneriane ma anche verdiane come il precedente Nabucco, appaiono quantomeno stancanti, per non dire noiosi, come nel caso di questo Olandese Volante.
La regia di questo Olandese è stata a mio parere inappropriata sotto molti punti di vista, a cominciare dalla completa dissociazione rispetto alle indicazioni nel libretto: perchè non si son viste navi, porti, tempeste. villaggi, marinai…? Perchè c’era quell’elemento mastodontico e del tutto incomprensibile proprio in mezzo alla scenografia, che a volte ruotava, a volte traslava, senza mai far trasparire la pertinenza con il libretto dell’opera?
Se quelle stampe giganti con rappresentata l’Africa volevano in qualche modo ricordare “le vele” della nave… si sarebbe potuto far molto meglio con delle semplicissime vele vere! …e le segretarie e i dipendenti di un’azienda che correvano avanti e indietro in uno spazio che, francamente, non induceva ad alcuna idealizzazione del contesto… per non parlare delle macchine da scrivere!! o dell’uso del telefono a dir poco ridicolo… per non parlare dei divani o divanetti, che a volte comparivano per far giacere i protagonisti di spalle alla platea… per non parlare di una Senta che sembrava non poter non correre, incomprensibilmente, a destra e a manca senza fermarsi un attimo…
Non so, a parte l’esecuzione musicale e vocale, per cui si potrebbe sollevare qualche spunto critico nei riguardi di un’interpretazione difficilissima da cogliere senza una conoscenza esatta delle dinamiche dell’opera, di un Olandese a dir poco inespressivo ed una Senta in palese difficoltà nel secondo e terzo atto, da un punto di vista unicamente legato alla regia posso solo augurarmi che il trend in corso alla Scala in queste ultime recite finisca rapidamente, per tornare ad inscenare le opere per come sono state realmente concepite dai compositori, non solo a livello musicale ma anche scenografico.
E ‘ la terza opera quest’anno alla Scala che bisogna seguire a occhi chiusi per il totale distacco fra la storia e la presentazione scenica. Precedenti: Lohengrin , Nabucco e Olandese volante . Che peccato!
Sono ovviamente d’accordo.Non si poteva guardare la scena perchè distoglieva l’attenzione dalla meravigliosa e incalzante musica a ondate dell’Olandese. C’erano in galleria giovani che assistevano per la prima volta ed erano totalmente frastornati da quello che accadeva e dalla totale divergenza del contenuto con la rappresentazione visiva. Ultimamente c’è il vezzo di collocare le opere in un tempo ben definito ,ma diverso dal loro .La valenza universale dei classici secondo me si rappresenta molto più efficacemente con forme astratte che ognuno può reinterpretare. L’ Olandese vestito come Zucchero Fornaciari era francamente inadatto.