[wide]
[/wide]
Concerti • Per le “Serate Musicali”, l’interessante e imprevedibile pianista bulgaro si è esibito in una sorta di omaggio all’immenso predecessore, mutuandone nel bene e nel male diverse scelte interpretative
di Luca Chierici
H ans Fazzari, insostituibile Patron delle Serate Musicali di Milano, ha spesso intitolato “Omaggio a Horowitz” i programmi di alcuni giovani artisti che suonano per lui e che, a suo parere, fanno parte di una ristretta élite a livello internazionale. Ci chiediamo come mai questo banner, troppo ottimistico a nostro avviso nel caso di pianisti come Volodin, Kempf, Kunz, non sia comparso a maggior ragione sulla locandina del recital dell’altra sera, che aveva come protagonista uno dei più interessanti e imprevedibili talenti di oggi, il bulgaro Evgenij Bozhanov. Ventinove anni, un temperamento che lo ha portato – giustamente – a rifiutare nel 2010 un quarto premio male arrangiato dalla giuria del Concorso Chopin di Varsavia, Bozhanov, contrariamente a quanto asseriva la locandina, non era al suo debutto milanese. Lo avevamo infatti ascoltato di persona poco più di un anno fa per la Società del Quartetto, anche se in quel caso l’impatto con la sala non era stato così violento come nel caso di questa seconda apparizione, che ha registrato un successo davvero straordinario.
Un nuovo Horowitz? Per certi versi sì, con tutti i limiti e il peso che questa eredità si porta dietro. Non a caso gran parte delle composizioni in programma l’altra sera facevano parte del repertorio del grande Volodia e almeno per quelle esecuzioni che sono state tramandate in disco era più che evidente una aderenza entusiastica, davvero un omaggio che il giovane virtuoso di oggi tributava all’immenso predecessore. Non si tratta qui, sia chiaro, di pedissequa imitazione, di ricalco che tenta di imitare solamente le qualità più esteriori di un pianismo eccelso, come accade ad esempio quando Lang Lang o Yuja Wang tentano di far rivivere il miracolo di alcune trascrizioni horowitziane attraverso la gara a chi suona più velocemente, con un suono striminzito o una valanga di effetti di pedale. E neppure ci si limita qui alla molto più intelligente e straordinaria proposta di Arcadi Volodos, che di Horowitz coglie l’ineffabile, lussureggiante ricerca di suono. Bozhanov è in grado di individuare una caratteristica fondamentale che lo stesso Horowitz aveva mutuato dal proprio grande mentore, Sergej Rachmaninov, ossia la ricerca del “punto” (l’apice o i momenti di massima accumulazione espressiva di una pagina musicale). Si tratta di una ricerca che va a condizionare un’intera esecuzione, interferendo sulla qualità del suono, sulla dinamica e l’agogica, sulla costruzione del fraseggio e quindi sul significato narrativo che è insito in ogni opera, anche la più astratta. Una analisi siffatta non include una analoga ricerca strutturale, che è invece oggetto di studio da parte di altre categorie di pianisti, soprattutto quelli appartenenti alla generazione dei Pollini, dei Brendel, degli Ashkenazy.
Bozhanov ha dato il via alla serata con una scelta molto difficile, soprattutto se vista in funzione dello svolgimento successivo del programma. Della Sonata op. 31 n. 3 di Beethoven, il pianista ha sottolineato giustamente la componente umoristica e i richiami di caccia che sembrano rappresentare l’idealizzazione di un genere che aveva avuto tanta fortuna nel ’700 e ha proposto attraverso una ricerca squisita di sonorità quella che forse sarebbe potuta essere l’ideale esecuzione horowitziana, purtroppo ignota perché presentata in pubblico solamente tra il 1939 e il 1941 e mai registrata. Il programma proseguiva con la Polonaise-Fantaisie di Chopin e con due pagine bellissime di Schumann, il Blumenstück e il terzo dei Nachtstücke op. 23, momenti tutti e tre pensati secondo i modelli tramandati da famose incisioni dello stesso Horowitz ma qui ricreati con effetti molto personali e affascinanti.
Il modello iniziava però a essere travisato nella seconda parte del programma, interamente dedicato a Liszt. Dopo una pregevolissima lettura di Jeux d’eau à la Villa d’Este, dove Bozhanov indovinava alla perfezione gli ingredienti di una squisita alchimia pre-impressionistica, il pianista si accingeva ad affrontare il capitolo conclusivo del secondo anno degli Anni di pellegrinaggio, quella “Dante Sonata” che per la sua estensione e per l’impegno richiesto all’interprete ha da sempre rappresentato un proverbiale banco di prova. A Milano la eseguirono in anni lontani artisti della levatura di Busoni, Rachmaninov e ancora Horowitz e più recentemente, negli anni ’80, Lazar Berman e Claudio Arrau ne avevano dato interpretazioni da antologia. Bozhanov intraprendeva il suo “viaggio” in tal senso nel migliore dei modi, accentuando forse troppo l’alternanza tra sezioni meditative e momenti di grande veemenza espressiva, ma a un certo punto deviava considerevolmente dal testo scritto aggiungendo passaggi in stile virtuosistico convenzionale e concludendo il discorso in maniera del tutto autonoma rispetto alle scelte del compositore. Cosa era successo? Semplicemente il nostro pianista si era lasciato nel frattempo attrarre da un’altra e molto meno interessante componente dello stile horowitziano. Come è noto, il grande virtuoso russo-americano metteva spesso le mani – è il caso di dirlo – su una composizione di Liszt, Musorgskij, Balakirev, riscrivendo la notazione originale in vista di una “migliore” resa strumentale. Questa sua mania venne aspramente criticata sia perché le novità spesso non portavano a un risultato esteticamente apprezzabile, sia perché con queste operazioni egli metteva in dubbio la conoscenza da parte dei suddetti compositori degli effetti che possono essere estrapolati dalla tastiera. In anni recenti alcuni studiosi si sono presi la briga di riprodurre graficamente quasi tutte queste contaminazioni partendo dall’ascolto dei dischi o di registrazioni pirata, tant’è che a questo punto molti giovani virtuosi si sono gettati a capofitto in quell’operazione di scimmiottamento cui accennavamo poco fa, credendo che la sola riproduzione delle note fosse sufficiente a ricreare il raffinato, anche se esecrabile, gioco illusionistico originale.
Bozhanov va al di là di questi “traguardi”, ossia applica questo tipo di rivisitazione anche nei casi in cui non esiste un esempio di riferimento. Horowitz eseguiva la “Dante Sonata” negli anni ’30 e per quanto non esistano purtroppo tracce di registrazioni di quegli eventi, possiamo a buon titolo immaginare che su un testo così importante egli non si prendesse libertà di sorta, così come non se le prendeva nel caso della lisztiana Sonata in si minore. Bozhanov compie quindi un’operazione non solo artisticamente per nulla felice (ascoltare per credere) ma anche infedele per ciò che riguarda il rispetto di colui che a buon motivo si può indicare come suo modello. Lo stesso comportamento censurabile si è ripetuto nella parafrasi dedicata al Valzer dal Faust di Gounod, pagina conclusiva del programma: un vero peccato perché le intenzioni erano davvero superbe, almeno nelle parti dove veniva rispettato il testo originale. Migliore allora la scelta del bis, dove Bozhanov ha reso omaggio al già citato collega Volodos eseguendo la sua trascrizione dell’Andante dalla Sonata per violoncello e pianoforte op. 19 di Rachmaninov, che continuiamo tuttavia a preferire di gran lunga nella sua versione originale, oltretutto registrata dallo stesso Horowitz e da Rostropovič con un risultato a dir poco stupefacente.
© Riproduzione riservata