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Opera • Durante la 70esima Settimana Musicale Senese sono state presentate con esiti contrastanti “La colombe” e “Imeneo”, la prima nell’allestimento scenico di Denis Krief, la seconda in forma di concerto con la direzione di Fabio Biondi
di Francesco Lora
L ’attività artistica dell’Accademia Musicale Chigiana si addensa, a metà luglio, nella Settimana Musicale Senese. Quest’anno la rassegna ha raggiunto la settantesima edizione e a dispetto di budget sempre più ridotti, tali da far paventare in un primo momento la sua soppressione, ha ancora una volta dimostrato come si assembli un programma di alta levatura intellettuale, di ampia varietà stilistica e di inesausta ricerca della novità. Dal 9 al 18 luglio il cartellone ha spaziato dal teatro d’opera alla musica contemporanea, dall’omaggio a Verdi e Wagner (tramite le parafrasi pianistiche di Liszt) a quello a Corelli e Berio, non senza ospitare una compagine di grido come la Mahler Chamber Orchestra. Tra i sette spettacoli in cartellone, si dà qui conto delle due opere presentate; vere rarità: La colombe di Gounod, allestita i giorni 9 e 10 in forma scenica nel Teatro dei Rinnovati, ha inaugurato la rassegna, mentre Imeneo di Händel, eseguito il giorno 13 in forma di concerto nella chiesa di S. Agostino, ne ha segnato il culmine.
Sesta opera completata da Gounod, La colombe entusiasmò il pubblico della prima rappresentazione, avvenuta nella città termale di Baden-Baden nel 1860. Allo spirito di quel luogo si addiceva, del resto, quest’opéra-comique breve, leggero, delizioso, dove i modelli di Auber e Adam sono superati per scaltrezza armonica e ispirazione melodica, e dove si ascolta una sorprendente sintesi tra il Gounod lirico del Faust e quello, meno noto, che condivide lo stesso spumeggiante linguaggio musicale del coetaneo Offenbach. La trama è uno spasso: per il tramite del maggiordomo Jean, la contessa Sylvie vorrebbe acquistare dal povero Horace una colomba con mille doti, utile a eclissare il successo in società del pappagallo della rivale Aminte; Horace rifiuta, poiché l’uccello gli ricorda ogni giorno proprio l’amata e irraggiungibile Sylvie; quando però quest’ultima si autoinvita a cena, Horace non ha altro da servirle in pasto che la povera colomba; lieto fine: il garzone Mazet ha in realtà messo in pentola il pappagallo di Aminte, da lui fortuitamente acchiappato, mentre Sylvie e Horace si sono ormai confessati reciproco amore.
Una volta scelta la versione di Montecarlo 1924, dove i dialoghi parlati tipici dell’opéra-comique sono sostituiti con i recitativi commissionati da Djagilev a Poulenc, lo spettacolo senese è stato affidato ad artisti decisi a dare il meglio di sé. Si ammirano innanzitutto la regia, le scene e i costumi di Denis Krief, che qui firma il suo ennesimo spettacolo fatto in economia estrema, ma con un brio, un genio e un’eleganza impagabili: in un’atmosfera fin de siècle delimitata da gigantesche incisioni, ogni personaggio è messo a fuoco con divertita cordialità, senza accondiscendere alla caricatura e cavalcando il ritmo della musica e l’estro del cantante.
Il quartetto vocale, tutto italiano quantomeno per adozione e formazione, perviene a un assortimento omogeneo pur schierando opposte specialità individuali. I cieli alti del pentagramma, la coloratura spiritosa e tutto il corredo della primadonna buffa alle soglie dello stile liberty risaltano così nella Sylvie di Laura Giordano. Al suo fianco, il tenore Juan Francisco Gatell esita talvolta all’innalzarsi della tessitura, ma il suo timido lirismo fa tutt’uno con quello di Horace. Il mezzosoprano Laura Polverelli, presa una vacanza dai panni di grande belcantista, si cala con spavalderia nella parte di Mazet, mentre il basso Filippo Polinelli, come Maître Jean, conosce i simpatici toni della vecchiaia esperta a dispetto dei trent’anni non ancora compiuti. La concertazione di Philipp von Steinacker, non illuminante ma salda di polso, ha messo in evidenza le qualità tecniche dell’Orchestra della Toscana: vivace equilibrio fra le sezioni, pienezza timbrica, sollecitudine nel restituire nuances.

Tra i meriti storici della Chigiana vi è quello di aver esplorato il repertorio operistico di Händel, a partire dai titoli meno noti, e di perseverare tuttora in questa indagine, con ciò ponendosi in controtendenza rispetto alla pigrizia delle altre istituzioni di spettacolo italiane. Dopo il Vincer sé stesso è la maggior vittoria del 1997, l’Arminio del 2000 e la Deidamia del 2002, è dunque stato il turno di Imeneo. Si tratta della penultima fatica teatrale di Händel, che iniziò il lavoro nel 1738, lo lasciò poi in sospeso e lo licenziò nel 1740 dopo molti ripensamenti: ne uscì un piccolo capo d’opera dove nel breve respiro è distillata la massima maturità del compositore. Nel 1742, alla vigilia della prima esecuzione del Messiah, l’autore travestì l’operina da serenata e la propose in concerto a Dublino, dopo avervi apportato nuove modifiche: recitativi abbreviati, arie tagliate, interpolazione di due duetti tratti dal Sosarme e dal Faramondo, trasposizione della parte eponima dal registro di basso a quello di tenore. Quest’ultima versione è quella proposta a Siena, in un’esecuzione di pregio dove qualche menda spiace a maggior ragione.
Fatto curioso, il nucleo principale della compagnia di canto era tutto scandinavo. Il tenore Magnus Staveland, norvegese, è suo malgrado il primo a dimostrare l’importanza di essere italiani nella pratica di questo repertorio: il suo Imeneo, straniero nello stile e nella tecnica, esce infatti da una gola di pietra, dove la parola è digrignata credendo di essere incisiva e dove il canto è affisso al palato credendo d’essere pregnante. Il bollettino è più generoso col soprano Ditte Andersen, danese impegnata nella parte di Rosmene: interprete stilizzata e monocorde, ella ha tuttavia nel timbro il sole degli inverni nordeuropei, freddo sì, ma luminosissimo, e modula con grazia e sgrana fitti trilli. Svedese e degna dell’alloro è infine Ann Hallenberg come Tirinto: ella ha voce mediosopranile omogenea e smaltata lungo tutta l’estensione, musicalità stellare che schiude fraseggi dotti e variazioni impensate, pronuncia e dizione quasi da madrelingua e rango da attrice nell’accentare i versi del librettista Stampiglia.
Diverso indirizzo hanno anche i due ultimi cantanti coinvolti. Nei suoi modi caricati, il vociante basso Marcos Fink ricorda più il Bartolo rossiniano che il pastorale confidente Argenio, e si fa così sopravanzare persino da Cristina Arcari, il soprano che intona la minuscola parte di Clomiri: a quest’ultima, unica italiana del gruppo, basta aprir bocca per dimostrare con quale naturale scioltezza e con quanta semplice fragranza dovrebbero essere articolati i recitativi. Il discorso torna a spaccarsi a proposito dell’ensemble strumentale e della concertazione. Intendiamoci: i musicisti di Europa Galante suonano con raro senso dell’intonazione, del porgere e della brillantezza, e la loro qualità tecnica è sopraffina; essi si presentano però in organico tanto ridotto e sbilanciato – sette violini contro una sola viola: un abuso del concetto di “struttura a clessidra” dell’orchestra barocca, con le parti esterne più rimpolpate rispetto a quelle interne – da far correre a ripari peggiori del male: per riportare l’equilibrio, non di rado il direttore e primo violino Fabio Biondi decide di far tacere la propria sezione e di suonare da solo con l’unica viola, a un sol tempo disattendendo la verità testuale e sfidando l’avara acustica del luogo.
Non ce ne voglia, Fabio Biondi, se abbiamo poi scosso il capo di fronte ad alcuni suoi vecchi capricci, e se in cuor nostro lo esortiamo a volersene presto emendare. Capricci come quello di volersi sostituire ai cantanti nelle cadenze di fine sezione delle arie, con esibizionismi violinistici che in quella sede offendono il non negoziabile primato della voce; o come quello di infliggere tagli a una partitura già contenuta in un’ora e mezza d’ascolto: insulsa è l’amputazione dell’aria «Deh, m’aiutate, o dei» in apertura dell’atto II (25 battute in tutto, e per giunta felicissime), mentre invereconda è quella di una porzione del da capo nel duetto «Per le porte del tormento» (un capolavoro nel capolavoro, e dunque intoccabile). Risparmiarsi cinque minuti di lavoro al costo di usare le forbici contro Händel: cui prodest?
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