
Concerti • Il pianista ha inaugurato la stagione dell’Accademia Filarmonica interpretando pagine di Prokof’ev ed i Notturni del compositore polacco con una lettura alquanto singolare
di Santi Calabrò
LA RIAPPARIZIONE PERIODICA SULLA SCENA CONCERTISTICA di Andrei Gavrilov, finora, ha sempre offerto l’eterno ritorno di uno dei più notevoli interpreti di Prokof’ev. Non si smentisce il Gavrilov 2013. La Sonata n. 8 op. 84, ultima delle “Sonate di guerra”, eseguita al Teatro Vittorio Emanuele di Messina nell’inaugurazione della stagione dell’Accademia Filarmonica, è segnata da un parossismo ancora più pronunciato che in passato. Gavrilov annuncia che quella di Prokof’ev «non è una sonata romantica», volendo segnalare al pubblico – lo ritiene necessario – che si tratta di musica differente dai Notturni di Chopin eseguiti nella prima parte. E aggiunge che l’Ottava Sonata è un monumento contro il totalitarismo. Ora, che questa etichetta (condivisa anche da Kissin) sia da prendere alla lettera, è molto dubbio: Prokof’ev, con la Settima Sonata, aveva vinto proprio il Premio Stalin. Certo, è anche possibile che nella successiva sonata volesse mettere in note tutto il fiele represso contro il dittatore, ma la violenza e l’intensità tragica dell’Ottava richiamano uno spettro di significati sia antitotalitari che altrettanto legittimamente guerreschi: l’oppressione, la disperazione, la paura, l’ossessione, la catastrofe, la rivolta, il ricordo straziante. Detto questo, se Gavrilov vuole pensare a un “contenuto” univoco, si può anche consentire.
I suoi tempi sempre accelerati, anche dove altre esecuzioni “meditano”, e il caleidoscopio di colori percussivi, restituiscono un’Ottava trascinante: ogni slancio lirico e persino l’introversione più cupa non vedono l’ora di tramutarsi in ribellione senza scampo o in sabba grottesco. Due bis d’effetto (Suggestion diabolique e Montecchi e Capuleti) completano il concerto e fanno spellare le mani al pubblico, ma senza liberarlo del tutto dallo sconcerto procurato dall’esecuzione della silloge di Notturni chopiniani. Nell’op. 9 n. 1, all’inizio, sembrava ci fosse una buona idea (il contrasto tra la tonalità di Si bemolle minore e quella di Re bemolle maggiore), anche se realizzata in modo esagerato. Proseguendo l’ascolto ci si accorge che la vera “idea” è proprio l’esagerazione! I cambi di tempo repentini e senza senso, i contrattempi inventati con annesse movenze swing, gli abbellimenti come scariche elettriche e tutto un repertorio di pesanti ammiccamenti fanno strage degli incolpevoli Notturni. Un vero peccato: nelle pause tra una trovata e l’altra la scrittura eufonica di Chopin e il mostruoso talento pianistico di Gavrilov regalano attimi di bellezza a tutto tondo; ma subito tornano in azione un mefistofelico “spirito che nega” e una sorta di “sindrome di Werther”. Se in quest’ultimo, come ben dice Thomas Mann, un esaltato vitalismo slitta in smania di morte, anche qui assistiamo a un sacrificio annunciato: cercando l’ennesima accentazione improbabile della mano sinistra nel corale del Notturno op. 48 n. 1, Gavrilov è risucchiato da un vuoto di memoria plateale, che gli fa chiudere la prima parte del concerto nel clima di una frenesia suicida. Ed è subito Prokof’ev…
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