Ci ha lasciati questa mattina il grande direttore d’orchestra. Aveva affrontato la malattia con coraggio. Rifiutava l’appellativo di “Maestro”. Recentemente era stato nominato senatore a vita
Non accetto limiti e cerco sempre cose nuove. Quando si pensa di sapere tutto la vita è già finita
Claudio Abbado
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Gustav Mahler e le orchestre
di Attilio Piovano
ASSIDUO SUL PODIO DELLE PIÙ BLASONATE ORCHESTRE del mondo, dall’Orchestra scaligera ai mitici Wiener, dalla London Symphony ai Berliner, Claudio Abbado – si sa – con l’universo mahleriano ebbe sempre uno specialissimo e assai precoce feeling, giù giù sino all’emblematica fondazione della Gustav Mahler Jugendorchester. In concerto, come pure in sede discografica, le sue interpretazioni di Mahler hanno fatto scuola, a partire da anni in cui la presenza del musicista boemo nei cartelloni e nelle stagioni era ancora una rarità; Karajan lo invitò già nel 1965 a dirigere la Seconda Sinfonia al Festival di Salisburgo. Ben presto venne il ciclo integrale delle Sinfonie, poi eseguite centinaia di volte e riversate in celeberrime integrali discografiche (per la mitica etichetta gialla della DG, in un monumentale progetto 1978-95). E non sarà certo un caso se la città di Vienna gli conferì la prestigiosa Mahler-Medaille. In questo momento di commozione e smarrimento per la perdita di uno dei maggiori interpreti su scala mondiale i ricordi si affollano nella mente e allora vien da pensare in special modo ad alcune indimenticabili serate delle quali conserviamo viva memoria per avervi preso parte.
Per dire, la sera in cui a Torino – città con la quale Abbado ebbe sempre un rapporto di speciale predilezione – inaugurò l’allora nuova sala del Lingotto progettata da Renzo Piano, la sera del 6 maggio 1994. E lo fece sul podio dei “suoi” Berliner con la mahleriana Nona, monumentale e caleidoscopica partitura. E le emozioni furono enormi già a partire dalle prime note dell’Andante iniziale del quale Abbado sapeva sempre cogliere l’aspetto misterioso e onirico, quell’atmosfera come di sospensione squarciata da improvvisi clangori, le sonorità ora diafane e delicate, ora livide. Abbado della Nona – come del resto di tutto Mahler – dava una lettura analitica, ma nel contempo a tutto tondo, lontanissimo ad esempio da un Boulez, attento ai dettagli, eppure senza mai perdere di vista gli ampi orizzonti dell’intera curva espressiva della partitura. Sapeva porre in luce a meraviglia gli scuotimenti tellurici dei passi più inquietanti come i più incorporei bisbigli; e poi il senso del grottesco e quel tipico umorismo sui generis del secondo movimento, singolare mix di ritmi squadrati da danza della bassa Austria e incisi di marcia; e la frenesia motoria del vigoroso terzo tempo dalla ferrea logica contrappuntistica, con un’estrema attenzione anche alla cantabilità effusiva. Sublime la sua lettura dell’Adagio col quale di fatto Mahler prese commiato dal mondo, superbo il rilievo conferito a quei temi struggenti dal colore singolarmente malinconico, sino all’estremo approdo alle ultime misure che preconizzano il silenzio. E a quel silenzio finale Abbado giungeva con un equilibrio calibratissimo, un’esattezza quasi matematica e nel contempo con un’indicibile, trepidante partecipazione emotiva.
Quella stessa intima partecipazione con la quale Abbado affrontava ad esempio i Lieder aus Des Knaben Wunderhorn dei quali parimenti ricordiamo una superba interpretazione nel maggio del 1995 (ancora al Lingotto); e riprendendo in mano il programma di sala pescato dall’archivio pare di risentire le mirifiche plaghe di Wo die Schönen trompeten blasen. Della celeberrima Quinta Abbado affrontava il famigerato (e pur sublime) Adagietto reso celebre da Visconti che, con fine intuito, l’impiegò quale colonna sonora in Morte a Venezia con una duttilità, una compostezza – una virilità, verrebbe da dire – davvero ammirevoli, senza le inutili smancerie di altri, senza le eccessive dilatazioni temporali che fanno talora di questa pagina una esercitazione di stucchevole melensaggine, ma al tempo stesso con una capacità di suscitare emozioni davvero unica: grazie alla cura estrema della concertazione, l’abilità rara nel dipanare i fraseggi con un certosino lavoro di concertazione anche su minimi dettagli, per poi fiondarsi nel rutilante Scherzo e nel vasto Finale con una carica energetica che trovava pochissimi riscontri in altri direttori.
Ancora ricordi ed emozioni per l’interpretazione della Sesta Sinfonia dai tragici assunti. Anche di tale capolavoro Abbado sapeva cogliere l’immane coesione formale attraverso una lettura scrupolosa dei dettagli, restituendo tutta la nostalgia del sublime movimento lento centrale, ma anche quelle singolari screziature timbriche del primo tempo. Del vasto Finale Abbado faceva emergere il portato di un immenso universo culturale, del quale egli stesso era a perfetta conoscenza, uomo dagli sterminati orizzonti culturali, appunto, amante di arte come di letteratura. E allora quanta poesia sapeva sprigionare in quei bucolici suoni di campanacci da gregge di cui la partitura è costellata e nei quali Mahler condensò tutto un mondo di ricordi, metafora di struggimento, rimpianto per il passato ed amarezza per il presente doloroso. Della Terza Sinfonia ascoltata più volte dal vivo Abbado evidenziava il contrasto tra le vigorose esplosioni e quei passi di candore naïf con le voci bianche impegnate a sillabare argentini bim bam e a mimare le campane, mescolandosi a quelle vere. E poi via col solenne Finale e quelle accensioni e distensioni che di Mahler sono la firma: una mistura di sensualità e incorporea serenità ultraterrena, come di chi ha saputo intuire il mistero dell’infinito, laddove arte e spirito s’uniscono mirabilmente e delle quali Abbado sapeva cogliere a perfezione l’intima essenza.
E ancora le delizie cameristiche della celestiale Quarta che Abbado cesellava con una cura specialissima e le opulenze dell’Ottava detta dei Mille, nella quale il rischio dello scoramento per l’ascoltatore è sempre in agguato. Non così con Abbado sul podio. E si poterebbero citare moltissimi altri luoghi topici, dal plumbeo rintocco dei timpani nel movimento lento della Prima Sinfonia che con Abbado aveva risonanze particolarissime al primaverile ridestarsi della natura colto stupendamente in apertura della medesima Sinfonia dopo quel protratto suono pressoché impercettibile che l’inaugura.
Abbado, uomo del nostro tempo che, più di ogni altro seppe cogliere le mille rifrazioni della musica mahleriana: le contraddizioni e i tormenti di un compositore che della modernità intuì le più riposte implicazioni culturali e filosofiche, proiettato come pochi altri sull’abisso. E se oggi di Mahler abbiamo una visione a tutto tondo la dobbiamo certo anche, se non in primis, alle interpretazioni di Abbado che, ben più di altre, di quell’abisso impenetrabile seppero svelare i misteri a schiere di ascoltatori, con la sensibilità e nel contempo l’umiltà dei grandi: un grande al servizio della musica. Grazie Claudio per aver contribuito a farci amare il sommo Mahler, nostro compagno di percorso.
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Il respiro civile degli anni ’70
di Luca Chierici
NELLA LOTTA CONTRO UN MALE che lentamente lo divorava, Claudio Abbado ha dimostrato in questi ultimi anni una forza, un coraggio, una visione positiva della vita che in un certo senso riflettono integralmente le qualità del suo rapporto con la musica, un rapporto fatto di amore viscerale, di impegno culturale e sociale, di instancabile curiosità. Per chi ha vissuto la Milano degli anni ’70 Abbado ha rappresentato una figura di riferimento insostituibile: erano anni in cui attorno a lui gravitava un gruppo di artisti che tendeva a modificare una concezione stantìa della musica colta, accettando il meglio dalla tradizione ma allo stesso tempo cercando di minimizzare tutta una sovrastruttura che dava importanza al lato mondano, alla cronaca concentrata sul lusso delle prime alla Scala, al divismo proprio dell’ambiente del teatro d’opera. Erano più importanti altri parametri di giudizio : il coinvoglimento, le emozioni che un’esecuzione musicale poteva scatenare, quei gesti, quelle prese di posizione che ti davano l’impressione che Abbado, Pollini, il Quartetto Italiano suonassero per una causa civile tale da coinvolgere l’ascoltatore e la sua percezione del fatto musicale. Per tutti coloro che amavano la “classica” questo tipo di approccio era di certo molto salutare. Essere giovani in quegli anni, quando si è più attenti al fascino della musica in sé (tutti noi ricordiamo le emozioni che scaturiscono dai primi ascolti) significava vivere in un ambiente che forse non avrà offerto la pluralità di avvenimenti tipica del giorno d’oggi ma che regalava delle emozioni oggi raramente replicabili. Sentire dal vivo per la prima volta capolavori come la quarta sinfonia di Brahms, il Requiem di Verdi, il Simon Boccanegra è già di per sé un avvenimento di quelli che lasciano il segno. Ma ascoltarli, come ci è capitato, tramite il gesto elegante, sofferto di Abbado ha rappresentato un valore aggiunto, una grazia di valore inestimabile. Erano serate davvero indimenticabili nelle quali Abbado spesso condivideva con rara modestia la felicità di far musica con i grandi interpreti, e allora l’emozione si moltiplicava all’ennesima potenza e ti dava alla fine un senso di compiutezza, di turbamento o di felicità a seconda dei percorsi attraverso i quali il direttore ti aveva accompagnato. Una sera si ascoltava il Requiem verdiano, con Mirella Freni che prima di intonare il “Libera me” faceva di scatto un passo in avanti sul palcoscenico della Scala e rimaneva unica protagonista di un momento da brivido; in un’altra si ammirava divertiti l’Abbado cembalista che si spostava con estrema naturalezza allo strumento per eseguire parti dell’Offerta musicale di Bach, e ancora si poteva assistere a programmi che, a ripensarci oggi, sembrano irrealizzabili (come quella sera del 2 novembre 1979 in cui si ascoltarono in sequenza una raccolta di Lieder di Strauss con Kiri Te Kanawa, il primo concerto di Brahms con Rudolf Serkin e un’altrettanto straordinaria esecuzione di Tod un Verklaerung). E che dire della (ri)scoperta dei grandi cicli mahleriani e bruckneriani? Poche persone a quei tempi avevano ascoltato in sala quelle grandi sinfonie, e allora le emozioni erano ancora maggiori, le impressioni ancora più vive.
Dopo una esecuzione da sogno del Concerto K.491 di Mozart con Radu Lupu, il direttore si rifiutò, come del resto faceva spesso, di accogliere l’applauso del pubblico accanto al solista, lasciando a lui tutta la responsabilità del successo
Sul rapporto tra Abbado e il mondo dell’opera non è certo necessario insistere, ma si deve qui notare come il direttore abbia separato nettamente le grandi stagioni scaligere da tutto ciò che è avvenuto in seguito: nel primo periodo Abbado aveva potuto contare sia su alcuni cast irripetibili che su un entusiasmo personale legato alle prime esecuzioni da parte sua di capolavori come il Barbiere, l’Italiana in Algeri, Don Carlos, Macbeth, Carmen e via dicendo. In tal senso il rapporto successivo agli anni ’80 è più collegabile a una fase di sperimentazione che lo ha portato a considerare in un ottica molto personale il repertorio mozartiano, il Fidelio, lo stesso Pelleas con risultati spesso non criticabili seguendo dei parametri tradizionali. Indimenticabili rimangono certo i Rossini, che culminarono con quello straordinario evento che fu la prima rappresentazione de Il viaggio a Reims a Pesaro nell’agosto del 1984, o il suo Wozzeck, Boris, il Prometeo di Nono, Lohengrin, oltre naturalmente ai grandi titoli verdiani.
I rapporti con le orchestre giovanili, la Mahler, le ECO, fino ai Berliner, alla Filarmonica della Scala da lui voluta, all’Orchestra Mozart e alla straordinaria avventura della compagine di Lucerna, dove la scelta del luogo ricordava il mitico rifugio toscaniniano degli anni tremendi che anticipavano la seconda guerra mondiale, sarebbero sufficienti a tracciare un ritratto a se stante del grande direttore. Negli ultimi anni, complice anche una televisione nel bene e nel male più attenta al fenomeno della musica classica di quanto non lo fosse stata un tempo, Abbado è stato protagonista di alcune trasmissioni monografiche o dibattiti che lo hanno avvicinato anche al grande pubblico. Le stesse trasmissioni dei concerti di Lucerna tramite il canale di Arte hanno certamente contribuito a rendere sempre presente l’immagine di Abbado, una immagine della quale però i sostenitori della prima ora hanno sempre sentito la mancanza dopo la fine del suo rapporto “a tempo pieno” con la Scala. Nonostante la presenza del direttore in Italia, a Roma, Ferrara, Reggio Emilia, nonostante la residenza a Bologna, le vacanze nell’amata Sardegna, il ritorno nel teatro milanese per dirigere la “sua” Sesta di Mahler, Abbado si era nei fatti allontanato dalla sua città natale. Della sua recente nomina a Senatore a vita che ha provocato vergognosi commenti e illazioni da parte di certa destra forcaiola, i media si sono occupati in lungo e in largo. A noi piace ricordare Abbado ancora nel suo rapporto con gli amati solisti che suonavano con lui. Qualche anno fa a Reggio Emilia, dopo una esecuzione da sogno del Concerto K.491 di Mozart con Radu Lupu, il direttore si rifiutò, come del resto faceva spesso, di accogliere l’applauso del pubblico accanto al solista, lasciando a lui tutta la responsabilità del successo: non si trattava di un gesto di falsa modestia, ma della testimonianza di quanto un grande musicista, all’apice della propria carriera, si potesse ancora commuovere ascoltando un collega al pari di lui così ispirato.
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Rifiutava l’appellativo di “Maestro”
di Corina Kolbe
Abbado, acclamato sui podi in tutto il mondo, rifiuta l’appellativo “Maestro”. Il suo percorso artistico non gli sembra una “carriera” ma piuttosto un viaggio che dura una vita e che lo porta sempre a nuove scoperte. Nato a Milano il 26 giugno 1933 da un padre violinista e una madre pianista e autrice di libri d’infanzia, conobbe fin da piccolo il fascino della musica. «Sono cresciuto con i trii di Schubert, Brahms e Beethoven» racconta. Quando a sette anni entrò per la prima volta alla Scala, i Nocturnes di Debussy diretti da Antonio Guarnieri gli rivelarono una magia che anche lui un giorno avrebbe voluto ricreare.
Un ritratto
di Riccardo Rocca
SCRIVEVA ANNI FA GUIDO CERONETTI che «l’uomo è un’anima che trascina un cadavere» e che «noi deploriamo come morte il suo stancarsi, alla fine, di fare da spazzino». Con distacco e semplicità si potrebbe immaginare Claudio Abbado usare proprio queste parole per raccontarci, sorridendo, quel che gli è appena successo. Si parla di un uomo il cui commiato dalla vita sembra rientrare nella normale ricorsività di quella Natura a cui si sentiva così legato. La passione per la vegetazione e le piante – e non solo quelle di Milano, delle quali si è purtroppo parlato troppo e male – non era una banale bandiera ambientalista, ma un’alta testimonianza di civiltà, tutt’uno con le passioni e gli ideali politici, civili ed artistici della sua vita.
Quella di Abbado era una visione del mondo di una bellezza folgorante, quasi troppo bella per essere vera. Era una sorta di utopia neoilluministica, moderna e compiuta, cosmopolita – il papà piemontese di origini arabe, la mamma siciliana, lui milanese – radicata in un europeismo dalle radici culturali profonde, continuamente irrorate dalla frequentazione e dallo studio della musica colta occidentale. E proprio la sua passione per le conquiste civili dell’Europa animava quelle iniziative mirate a coltivare altrove qualche seme del medesimo benessere. L’entusiasmo, unito ad un pizzico di candore, con il quale raccontava i propri progetti di sviluppo musicale ed emancipazione sociale per i ragazzi delle favelas in Venezuela, era il medesimo che accendeva ed innalzava le sue interpretazioni alle massime vette. Basti pensare al suo inconfondibile gesto, con i gomiti differiti leggermente all’interno rispetto alla linea delle mani, la mano sinistra in alto ma un po’ ripiegata all’interno con il polso in posizione estrema. E poi quei sorrisi timidi, lunghi e quasi liberatori con i quali ordiva le diverse tinte espressive della Sinfonia “Dal Nuovo Mondo” di Dvořák o attraverso cui suscitava le apoteosi mahleriane degli ultimi anni a Lucerna: in esse la maturazione del dolore era trampolino per una riconquistata, e dunque più preziosa, serenità.
Fin dagli esordi, con i cimenti rossiniani degli anni Sessanta, Abbado si contraddistingue per una curiosità filologica che mai è stata pedanteria, ma sempre necessità di approfondimento e cammino di conoscenza. Un lungo viaggio da Rossini a Mahler quello abbadiano, passando per Verdi, Mozart, Beethoven e la musica contemporanea: sempre nel profondo convincimento che soltanto un atteggiamento di rispetto ed approfondimento testuale potesse dischiudere le porte della musica oltre il segno scritto.
L’indole discreta, schiva e riservata di Abbado sembra essersi negli ultimi anni riversata anche in un’insistita ricerca di austerità sonora, in modo particolare in quei repertori rispetto ai quali l’atto esecutivo doveva sembrargli quasi imperfetto rispetto alla compiutezza della partitura pensata. In questa prospettiva sembrano spiegarsi gli ultimi esperimenti con l’Orchestra Mozart di Bologna: sinfonie e concerti mozartiani alleggeriti, quasi ridotti all’osso, e poi la musica di Bach, resa sempre più scarna, lieve ed esile, come appena sfiorata. Sono stati però Schubert e Bruckner ad accompagnarlo, l’estate scorsa a Lucerna, nell’ultimo concerto: estrema tappa di un cammino artistico ed umano destinato a sopravvivergli nelle nuove utopie di chi ha saputo ascoltarne l’insegnamento.