Con la Filarmonica della Scala, nella doppia veste di direttore e solista al pianoforte, per un concerto di beneficenza. Eseguita la Quinta di Čajkovskij ed il concerto K 595 di Mozart
di Luca Chierici
UNA SERATA DI BENEFICENZA a favore della Fondazione Don Gnocchi, impaginata attraverso la parziale ripetizione di un programma che era già stato collaudato nel marzo scorso, si è svolta l’altra sera proprio nel momento in cui Daniel Barenboim dava un formale addio all’orchestra scaligera, un distacco che è nell’ordine delle cose e che speriamo sia meno drammatico e ineluttabile di quello che a suo tempo aveva siglato la fine del rapporto tra la Filarmonica e Riccardo Muti. Una serata che si è rivelata davvero magica e coinvolgente al di sopra delle pur rosee aspettative e che al di là delle scelte specifiche di contenuto ha dimostrato una volta per tutte quale sia il livello di eccellenza del musicista argentino e la profondità del suo rapporto artistico e di lavoro con l’orchestra. Il nome di Riccardo Muti tornava prepotentemente alla nostra memoria nel momento dell’ascolto della Quinta sinfonia di Čajkovskij, suo cavallo di battaglia fin dagli esordi di carriera. La Quinta di Muti, e quella di molti altri direttori famosi, ha sempre pagato un tributo – che appare quasi scontato – a certi lati trionfalistici che caratterizzano il finale e altri momenti di un lavoro peraltro incluso in una sorta di “trilogia del destino” a fianco della quarta e sesta sinfonia. È facile, in altre parole, sottolineare il carattere esteriore di certe melodie e di certi ritmi di marcia della Quinta, ridurre i significati di una partitura complessa a una catena di effetti di gusto non sempre esente da critiche e quindi portare l’ascoltatore a condividere il riserbo che venne espresso nel marzo del lontano 1889 da uno spettatore d’eccezione come Johannes Brahms, presente a una prova che precedeva la prima esecuzione occidentale della sinfonia. Nulla di tutto ciò traspariva invece dalla lettura di Barenboim, ed era come se la partitura ciaikovksiana venisse rivelata per la prima volta in tutta la sua freschezza, la rigogliosa invenzione dei motivi, la variegatissima tavolozza orchestrale, attraverso un filo narrativo che giustifica del tutto certe ripetizioni tematiche o l’insistere di alcune cellule ritmiche. Barenboim possiede una conoscenza della musica e del repertorio classico che è superiore a quella di ogni altro direttore in carriera, fatto questo che gli consente – quando le condizioni di stress glielo permettono e quando è coadiuvato da una orchestra in grado di mettere in pratica tutti i suoi suggerimenti – di raggiungere dei livelli di assoluta eccellenza come è stato il caso di giovedì scorso. Il rispetto del segno musicale è per lui uno stimolo a individuare l’esatto percorso narrativo e in questo caso a sviluppare in maniera infallibile le numerosissime e preziose alchimie sonore di una orchestrazione che punta tra le altre cose a sottolineare il valore timbrico ed espressivo dei fiati.
In apertura di serata Barenboim aveva interpretato da par suo quell’ineffabile capolavoro che è l’ultimo concerto per pianoforte e orchestra di Mozart, quello che pare veramente scritto sulla “Via alla porta del Paradiso” (questo era il nome della strada viennese dove si tenne la prima esecuzione del K 595). Anche in questo caso alla esecuzione affrettata e meccanica di molti colleghi il pianista e direttore sostituiva una lettura che teneva conto delle mille sfaccettature espressive e del tortuoso percorso armonico del Concerto, lo stesso che un giovane Barenboim aveva diretto quarantadue anni fa proprio alla Scala durante una serata che ci è rimasta particolarmente impressa nella memoria: solista di allora era il meraviglioso Clifford Curzon. Il sostanzioso bis scelto da Barenboim per ringraziare il pubblico dell’ovazione concessagli al termine del programma mozartiano rappresentava sì un anticipo del ciclo schubertiano in calendario nel prossimo autunno ma anche una segreta connessione tra il lascito del salisburghese e il meraviglioso meccanismo ad orologeria che contraddistingue il finale della Sonata in re maggiore D 850, un bis quanto mai prezioso e ancora rivelatore della immensa musicalità del direttore e pianista.
Le serate di beneficenza attirano di solito una grande fetta di pubblico che non frequenta abitualmente il teatro, e che si abbandona a facili entusiasmi al termine dello spettacolo. Siamo però sicuri che la cosiddetta standing ovation che ha salutato la conclusione del concerto dell’altra sera fosse dettata non solo da un autentico moto di ammirazione: era il saluto riconoscente dei presenti nei confronti di un Maestro che ha lasciato una impronta artistica incancellabile nella nostra città.
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