Gustavo Dudamel ha diretto la monumentale orchestra al Teatro Filarmonico infondendo un raffinato sguardo personale
di Cesare Galla
UN’ORCHESTRA CHE ha superato i centotrent’anni anni (sono centotrentadue, per la precisione) e un direttore che ne ha poco più di trenta. Una tradizione esecutiva che viene dal cuore della civiltà musicale europea nel secondo Ottocento e un interprete “extra-europeo” che a quella civiltà ha dedicato quasi integralmente il suo studio, il suo talento e la sua passione. Una storia antica attualizzata all’insegna della globalizzazione. La favola di Gustavo Dudamel non da ora incrocia il mito dei Berliner Philharmoniker. Continua a farlo, lo ha fatto anche di recente in una breve tournée italiana che ha visto i Berliner protagonisti di una “prima” assoluta, perché a Verona – dove li ha chiamati l’antica Accademia Filarmonica per l’anteprima del suo festival con le grandi orchestre, che si svolge ogni settembre da 23 anni a questa parte – non avevano ancora mai suonato.
L’ex pupillo di Claudio Abbado, l’uomo-vetrina del celebrato “Sistema” socio-musicale venezuelano di José Antonio Abreu, è salito sul podio del teatro Filarmonico con un programma tipico della tradizione dei Berlinesi. Secondo Ottocento, allora. Per la precisione: anni Settanta dell’Ottocento fra Russia e paesi di lingua tedesca, in una singolare concentrazione anche cronologica che delimita il brevissimo periodo che va dal 1870 al 1876. Dalla parte russa, musica a programma, ovvero musica sulla letteratura, secondo il più tipico orizzonte romantico: la lettura che Čajkovskij fa di Shakespeare distillata in due “Fantasie” di superbo spessore sinfonico, La tempesta e Romeo e Giulietta. Dalla parte tedesca il primo frutto della sofferta meditazione di Brahms sul genere Sinfonia, maturato come si sa dopo un’elaborazione quasi ventennale e non senza che il pressing del mondo musicale tedesco (avviato da Schumann) avesse un peso decisivo nell’opera.
Brahms era cosciente di maneggiare una forma non lontana dall’esaurirsi e la drammaticità implicita della sua adesione alla tradizione consiste proprio in questa sofferta consapevolezza, risolta nell’unico “eroismo” possibile (dopo l’epica beethoveniana), quello di un linguaggio alto e severo, scandito secondo una “retorica” orchestrale capace di affermare ancora una volta il dominio dell’invenzione musicale assoluta. Čajkovskij utilizzava quasi lo stesso linguaggio con una febbrile libertà che gli permetteva di modellarlo su contenuti extra-musicali per ricondurli a una loro forma di rapinosa assolutezza: temi travolgenti nella loro intensità o brillantezza, colori e armonie di suprema drammaticità.
L’uno e l’altro sono si può dire da sempre nel pantheon musicale dei Berliner, oggetto di una consentaneità che quasi si respira quasi nell’approccio strumentale. La conseguenza è un’avvincente identificazione stilistica: colore, calore, spessore e qualità del suono sono fattori estetici e architravi interpretative che nessun direttore può ignorare. Dudamel non solo non li ignora, ma quasi devotamente li asseconda, facendo del suo gesto elegante e nitido, misurato e preciso, una sorta di estensione di questo modo di fare ed essere musica. Esecuzione calligrafica, quella del direttore venezuelano. Dinamiche e fraseggio sono intimamente collegati per arrivare all’obiettivo: una rilettura nel solco di quella tradizione romantica che da Bülow a Nikisch, da Furtwängler a Karajan è diventata un classico e non ha mai cessato di rinnovarsi dinamicamente senza però tradire i suoi presupposti. E il rinnovamento, cauto e meditato, con Dudamel si ha nei dettagli, nei particolari rivelatori: sottili riflessioni “dentro” alla frase, mutazioni di tempo, commozione ed eleganza laddove normalmente si coglie solo passione. Nulla che non sia fedele ai modelli, nulla che non abbia un raffinato marchio personale. Forse per questo, il pubblico che gremiva il Filarmonico ha accolto la prova con qualche distacco, pur nell’evidente stima. Il che non ha impedito un bis nel nome di Leonard Bernstein.