Ciò che era lecito anzi eccitante nel Settecento libertino diventa scandaloso, fuori luogo, censurabile nell’Ottocento, secolo di assestamento dei valori della borghesia europea | Direzione musicale di Daniel Barenboim | La regìa di Claus Guth spazza via una serie di luoghi comuni | Il cast vocale non brilla
di Luca Chierici
DI UN’OPERA DI COSì DIFFICILE DEFINIZIONE come il Così fan tutte si possono tentare oggi letture in grado di andare al di là degli schemi che troppo spesso hanno accompagnato la messa in scena di questo sfuggente capolavoro mozartiano. Nel passato si è visto di tutto, anche alla Scala, con piatti di pastasciutta rovesciati su sfondi vesuviani (la regia di Patroni Griffi del 1976, con Karl Böhm sul podio), le attenzioni puntate sul travestimento di Guglielmo e Ferrando in turchi o valacchi, il birignao di Despina nelle scene del Dottore e del Notaio, un comportamento troppo civettuolo delle due sorelle, ben consce di vivere una situazione da liaisons dangereuses e via dicendo. Ben venga quindi il rinnovamento voluto da Claus Guth, regista di questa ripresa scaligera, che ha spazzato via un quintale di luoghi comuni duri a morire, molti dei quali si tramandavano molto probabilmente fin dai tempi delle prime esecuzioni viennesi del 1790.
Come è noto, il lavoro di Mozart e Da Ponte aveva in quei tempi attirato un mare di critiche per la scabrosità del soggetto, un soggetto censurato tra gli altri da Beethoven (che a quanto pare si riferì esplicitamente nella sua condanna solo alle Nozze di Figaro e persino al Don Giovanni, ma l’inclusione del Così appare del tutto naturale) e da Wagner. La reazione dei contemporanei e di tutto l’Ottocento è spiegabile nei termini di una trasformazione del gusto e dello stesso modo di considerare – almeno a parole – il valore dei rapporti amorosi. Ciò che era lecito, anzi eccitante, nel Settecento libertino diventa scandaloso, fuori luogo, censurabile appunto nel secolo di assestamento dei valori della borghesia europea. Nell’interessante saggio di Andri Hardmeier pubblicato nel programma di sala vengono sottolineate acutamente alcune considerazioni di tipo psicoanalitico dalle quali oggi non si può certo prescindere nell’allestimento del Così fan tutte. Hardmeier si riferisce a un lavoro di Freud (Resistenza e rimozione) nel quale si propone “un modello spaziale della psiche in cui l’inconscio è paragonato a una grande anticamera e la coscienza al salotto”. “Sulla soglia tra queste due stanze – scrive Freud – svolge le proprie mansioni un guardiano, il quale esamina e censura i singoli impulsi psichici, e li ammette nel salotto solo se gli vanno a genio”. Hardmeier nota a questo punto: “Don Alfonso può essere visto come una sorta di guardiano alla soglia dell’inconscio, ma egli non si limita a fare distinzione fra le pulsioni ammissibili e quelle giudicate malvagie […] va oltre e apre le chiuse, facendo scendere gli altri protagonisti nei meandri più profondi e ancora ignoti della coscienza. Quando finalmente le due coppie di Così fan tutte riconoscono l’irreversibilità del cammino che hanno intrapreso, è troppo tardi: i quattro sono ormai persi nel desiderio, combattuti tra amore e passione, sicurezza e abnegazione, fedeltà e tradimento.”
La regia di Guth segue a grandi linee questo tipo di interpretazione. Don Alfonso è una sorta di burattinaio che per proprio capriccio vuole dimostrare un teorema di infedeltà e letteralmente manovra i movimenti dei quattro amanti, ricorrendo spesso a un fermo immagine che gli permette di risolvere brillantemente certi problemi scenici e allo stesso tempo costringe i protagonisti a posture assai scomode. Ferrando e Guglielmo si prestano obbedienti al gioco ma appaiono in realtà meno coinvolti di quanto non lo siano Fiordiligi e Dorabella, che sembrano vivere consapevolmente la trasformazione dei propri sentimenti. Despina, sempre nella visione di Guth, non si discosta molto dai caratteri del personaggio tradizionale ed è forse un ruolo sul quale si sarebbe potuto lavorare con maggior sagacia. Le scene di Christian Schmidt, ambientate in una casa-giardino moderna e arredata in ossequio al più puro minimalismo sono del tutto funzionali e contribuiscono non poco all’operazione di svecchiamento già citata. Un problema di parziale fraintendimento di intenzioni scaturisce invece dalla interpretazione di Barenboim, che sceglie tempi molto lenti e lavora soprattutto sul particolare e sull’aspetto cameristico di certi accompagnamenti. Ma soprattutto sembra insistere su un cambiamento di livello tra il primo e il secondo atto per calarsi qui in una sorta di routine aggraziata che pare commentare distrattamente lo svolgersi dei tradimenti e la sbrigativa conclusione del dramma giocoso.
Barenboim ha sottolineato quindi la stratosferica bellezza di certi momenti come il quintetto Di scrivermi ogni giorno, le arie Smanie implacabili e Come scoglio, Un’aura amorosa e Non siate ritrosi, per non parlare del sublime Terzetto. Quest’ultimo era stato scelto nel 1971 dal regista John Schlesinger come colonna sonora di una indimenticabile scena del film Sunday Bloody Sunday, allora scabroso portatore di un tema scottante come quello di un intreccio amoroso che coinvolgeva un giovane invaghito allo stesso tempo di una donna e di un uomo (chissà, forse un soggetto che avrebbe solleticato la curiosità del Duo Mozart-Da Ponte catapultato ai giorni nostri). Ma il second’atto, soprattutto a partire dall’aria di Guglielmo, una delle tante autocitazioni mozartiane che abbondano nel Così fan tutte (da Aprite un po’ quegli occhi nelle Nozze di Figaro) ci è parso faticoso, e non sappiamo se per colpa del direttore, del regista i cui espedienti diventavano via via sempre più prevedibili, della compagnia di canto o… dell’Autore che nella più probabile delle ipotesi aveva completa coscienza di come il dissolversi dell’incanto amoroso, una volta che la “burla” architettata da Don Alfonso giungeva al suo compimento, compromettesse fatalmente il livello della tensione musicale. Mozart è incapace di fingere, da questo punto di vista, e oggi molte parti di un lavoro un tempo così bistrattato come il Titus ci appaiono più vere e coinvolgenti dell’ultima parte di Così fan tutte.
Nel contesto della regia di Guth e pur guidati dalla bacchetta di un Barenboim, i cantanti hanno rischiato per davvero di apparire come degli automi, peraltro non dotati di mezzi vocali così perfetti da permettere una buona riuscita dell’insieme. Lo stesso Michele Pertusi (Don Alfonso) non andava al di là di una generica correttezza stilistica, mentre tutto sommato più che accettabile – e a tratti coinvolgente e giustamente applaudita – ci è apparsa Maria Bengtsson (Fiordiligi). Alquanto debole era la Dorabella di Katija Dragojevic, corretta ma con qualche problema negli acuti la Despina di Serena Malfi. Adam Plachetka impersonava un Guglielmo più aitante (e scopereccio, vista l’esplicita richiesta del regista) che dotato di una vocalità memorabile, mentre il più quotato degli interpreti, Rolando Villazon, era sempre sopra le righe con la sua emissione troppo aperta, un gesticolare che pensiamo non fosse del tutto farina del sacco del regista e soprattutto una dizione che dimentica invariabilmente come la lingua italiana preveda l’uso delle doppie consonanti. È triste allora rassegnarsi al fatto che una lettura scenicamente innovativa, sostenuta da una visione musicale di alto livello, debba essere oggi penalizzata da un cast che fa spesso rimpiangere “i cantanti di una volta”.
Così fan tutte Wolfgang Amadeus Mozart | Teatro alla Scala | Rappresentazione del 30 giugno 2014 | Daniel Barenboim, direttore | Claus Guth, regia | Michele Pertusi, Katija Dragojevic, Maria Bengtsson, Rolando Villazon
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Gentile Luca Chierici,
mi sono imbattuto ieri su Rai5 nella proiezione del secondo atto del Così fan tutte scaligero. Come scrive Lei, la regia di Guth spazzerà anche via “una serie di luoghi comuni” e non sto a discutere sulla bontà dell’interpretazione freudiana dell’opera, ma la prima, forte impressione che ho avuto è che o Guth non capisce l’italiano e non ha ben chiaro cosa dicono i cantanti, oppure ritiene la propria idea di teatro talmente superiore a quella di Mozart e da Ponte da ignorare tranquillamente, e a volte stravolgere in modo (a mio avviso) goffo e ridicolo le molte didascalie sceniche presenti nel libretto. Per limitarmi al secondo atto, nel secondo duetto di seduzione tra Fiordiligi e Ferrando, Fiordiligi SEDUTA supplica Ferrando IN PIEDI: “Sorgi, sorgi”; perché mai “sorgi”, dato che Ferrando è già in piedi? Perché le parole abbiano un senso, è ovvio che Ferrando è in ginocchio di fronte a Fiordiligi: seguire la chiara indicazione del testo avrebbe comportato un vulnus all’interpretazione di Guth? Despina nel finale canta “Manco mal se me l’han fatta che a molt’altri anch’io la fo”, ma subito dopo ha un gesto di stizza nei confronti di Don Alfonso: perché, se ha appena detto “Manco mal”? E di esempi di gesti, posture e azioni che travisano o semplicemente ignorano le parole del libretto ce ne sarebbero decine. Piccolezze, si dirà, anche se forse il regista dovrebbe essere al servizio del libretto, e non il contrario. Ma piccolezze che, nello spettatore che capisce il testo, non possono non ingenerare qualche fastidio.
E sono piccolezze anche i tagli di alcuni recitativi? Nel secondo atto ne ho contati, a memoria, tre. Il primo quasi all’inizio dell’atto: Despina e Dorabella cercano di convincere Fiordiligi ad accettare la corte dei nobili albanesi e Fiordiligi, tentata ma non convinta, si premura di scaricare eventuali responsabilità in caso nasca “qualche imbroglio”. Dorabella ribatte: “Che imbroglio nascer deve, con tanta precauzion?”. Quale “precauzion”? Non è dato saperlo, visto che è stato tagliato il pezzo di recitativo in cui Despina annuncia che avrebbe messo in giro la voce che i due pretendenti sono lì per lei. Il secondo taglio è quando Fiordiligi decide di partire per il “marzial campo” alla ricerca di Guglielmo e per passare inosservata si traveste da soldato mettendosi un cappotto e un cappello di Ferrando; Guth decide invece che Fiordiligi debba prendere il coltello con cui i personaggi hanno gigioneggiato a turno e taglia tutto il recitativo in cui si parla degli abiti maschili. Il taglio però non può essere completo perché bisogna introdurre la tonalità del duetto successivo, così Fiordiligi impugna il famoso coltello declamando gli ultimi due versi: “Oh, come ei mi trasforma le sembianze e il viso! / Come appena io medesma or mi ravviso!”. Il coltello le trasforma le sembianze e il viso? Però! E subito attacca a cantare: “Tra gli amplessi in pochi istanti / giungerò del fido sposo; / sconosciuta, a lui davanti / in quest’abito verrò”: perché mai sconosciuta e in quale abito, se non si è cambiata? L’ultimo taglio è il brevissimo recitativo, una ventina di secondi, tra Don Alfonso, Ferrando, Guglielmo e Despina prima del finale. Non sarà un brano fondamentale, ma qual è il senso del taglio?
Per farla breve, mi chiedo se una regia “innovativa” (e facciamo finta che quello che si è visto non si sia già visto molte altre volte) debba per forza anche ignorare il senso delle parole che i cantanti pronunciano e permettersi di tagliare parti che, per un qualche motivo, evidentemente non concordano con l’idea interpretativa che il regista si è fatto di un’opera.
Cordialmente,
Danilo Mongelli
Caro Mongelli, in linea di massima lei ha ragione per quanto riguarda il rispetto delle didascalie del libretto, soprattutto quando vengono vistosamente contraddette dalle situazioni sceniche. Lo stesso dicasi dei tagli ai recitativi, che andrebbero fatti tenendo conto di un minimo rispetto della logica e della consequenzialità degli avvenimenti. Ma oramai da molto tempo i registi che si muovono nel verso di una reinvenzione almeno parziale della vicenda, trasformando i caratteri dei personaggi o il contesto originale all’interno del quale si svolge l’azione, non vogliono occuparsi dei dettagli ai quali lei accenna perché spesso la coerenza assoluta con il testo renderebbe impossibile la realizzazione dei loro intenti. Personalmente trovo più deprecabili certi interventi registici (si veda il piatto di spaghetti rovesciato dal cameriere, al quale accennavo) che apparentemente non apportano modifiche al libretto ma che aggiungono particolari di pessimo gusto. Mi sembrano meno fastidiose certe piccole incongruenze, peccati veniali o come li vogliamo chiamare, a patto che la regia “innovativa” sia mossa da una idea di base motivata e coerente. Il risultato finale può essere poi più o meno gradevole, al di là delle buone intenzioni, ma questo è il destino di ogni scelta artistica.