Una regressione di civiltà spaventosa. A seguito del licenziamento di coro e orchestra dell’istituzione romana una riflessione sulle condizioni del lavoro in relazione ad un mercato che qualcuno vuole definire moderno, portandoci nei secoli passati
di Francesco Cattaneo
LA LIBERTÀ DI PENSIERO È UN DIRITTO, così come quella di parola. Non dovrebbero però essere tollerate affermazioni false e non documentate, in un dibattito culturale e politico che investe aspetti decisivi della vita del paese. È una maniera disonesta di affrontare i problemi e sposta l’asse della discussione sul terreno della manipolazione e della falsificazione.
A Roma, al Teatro dell’Opera sono arrivati al punto critico annosi e complessi problemi, che intrecciano questioni di relazioni sindacali, di contratti di lavoro, di bilanci, di costi, di produttività dell’istituzione, fino a toccare il ruolo della musica e dei musicisti. Problemi risolti da Presidente e Sindaco con un colpo di spada: l’intera orchestra e coro licenziati. Non era mai accaduto in Italia, a questi livelli. E nemmeno in Europa. Per questo le organizzazioni sindacali europee promuovono una petizione a sostegno dei colleghi italiani. La questione è troppo complicata per poterla sviscerare adeguatamente in tutti i suoi aspetti in un intervento. Mi limito considerazioni di ordine politico e sindacale, di politica sindacale.
Senza dimenticare che quel che è in gioco è il ruolo della cultura musicale e dei musicisti in una società schizofrenica, che da un lato spreca quantità industriali di pura ideologia (e dunque di falsa coscienza, come ci ha insegnato un insuperato maestro) sulla professionalità, la qualità, il merito e dall’altro riduce i professionisti a salariati precari e dunque tendenzialmente dequalificati. L’Orchestra del Teatro dell’Opera di Roma non teme critiche artistiche: si tratta di una formazione di eccellenza nel panorama internazionale. Eppure questo aspetto non sembra aver scaldato i motori degli opinion maker nei giornali italiani.
In questa occasione è preferibile però osservare quel che sta accadendo sotto un profilo decisivo ma del tutto negletto: le relazioni di lavoro. I musicisti dell’Opera di Roma operano in un teatro stabile, hanno un contratto di lavoro a tempo indeterminato, in cui sono state fissate le modalità del rapporto di lavoro, comprese le varie forme retributive, tra cui le indennità, e tutto quanto fa parte della civiltà del lavoro di questo paese. Che motivazione ha dunque la vergognosa cagnara scatenata sulle indennità? E da che pulpito viene? Perché il soprintendente Fuortes non mostra le sue indennità a fronte di un compenso annuale di 13.000 euro? E perché i giornalisti non le indagano? Delle relazioni sindacali è parte sostanziale il diritto di sciopero, l’unica arma a disposizione dei lavoratori, per riequilibrare, a caro prezzo per i dipendenti, un rapporto che persino la legislazione ordinaria considera squilibrato a favore dei datori di lavoro. Adesso tutto quanto conquistato nei decenni trascorsi è diventato privilegio, corporativismo, e l’esercizio di un diritto costituzionale, sancito dalla Costituzione, una prevaricazione.
Gli scioperi che hanno costituito materia di scandalo per l’informazione conformista sono stati in totale quattro nel 2014: decisamente pochi, se si pensa che si trattava di reagire alla mancata presentazione da parte del sovrintendente Fuortes di una pianificazione economica e un piano aziendale di risanamento. Del resto, con una lettera aperta datata 11 luglio 2014, i sindacati spiegavano con chiarezza le loro ragioni: avevano già chiesto un tavolo istituzionale con il Ministero, Comune e Regione, «più volte promesso ma mai concretizzato». E ancora in un comunicato rilasciato subito dopo l’abbandono da parte di Riccardo Muti, i sindacati affermavano: «Noi ci adopereremo, con i tempi dovuti, a una operazione verità anche sulla gestione dell’Opera di Roma istruendo tutta la documentazione necessaria, in cui evidenzieremo sia le fantasmagoriche evoluzioni del conto economico della Fondazione che i gravami di una gestione del tutto anomala a partire dal Sistema Appalti dove auspichiamo una compiuta inchiesta della Magistratura».
La stampa nazionale ha forse seguito le indicazioni di metodo fornite dal sindacato? Ha cioè approfondito, indagato sui problemi che i lavoratori hanno messo all’evidenza pubblica? Per niente. È questo il giornalismo d’inchiesta? Si assume il punto di vista della direzione del Teatro e del Comune di Roma, senza un riscontro? Eppure, l’accenno nel comunicato sindacale al Sistema Appalti di questi tempi dovrebbe essere oltremodo stimolante, per un giornalista. Nello schieramento d’opinione c’è all’evidenza qualcosa che non funziona.
Il modo con cui l’intero sistema dei media ha trattato la vicenda fa purtroppo capire che i lavoratori dell’Orchestra e coro sono anch’essi vittima di quella guerra distruttiva di civiltà avviata da tempo contro tutti i lavoratori fino all’abbattimento di diritti e conquiste storiche. Basta scioperi! canta lo stonato coro di dirigenti e governanti. Al massimo, si può lasciare ai lavoratori salariati la condizione pre moderna del diritto al mugugno: ai vogatori delle galere era proibita ogni azione di protesta, potevano però mugugnare. Torniamo lì, con una regressione di civiltà spaventosa, un ritorno al lontano passato spacciato come salto nella modernizzazione.
L’attacco al diritto di sciopero e all’autonomia dei lavoratori arriva da manager, i cui contratti sono al di fuori di ogni logica di spesa e di rapporto costi-risultati. E da politici, il cui ceto ha fatto dell’appropriazione dei beni pubblici un esercizio mai dismesso, nemmeno dopo gli scandali più eclatanti. In questa vicenda sembra che siano arrivati a fondersi vent’anni di strategia di svalorizazzione del lavoro e di delegittimazione del criterio della rappresentanza, del lavoro collettivo, delle condizioni contrattate.
Sono i risultati della peste liberista, che ammorba, inquina e rovina la socialità del lavoro, le comunità artistiche e scientifiche, schiacciate da valori e poteri antagonisti a quelli della bellezza, dell’arte e dell’intelligenza. E d’altronde, cosa si può pretendere da chi concepisce l’orchestra come un insieme di individui, insieme magari raccattato di volta in volta nonostante la promessa di una collaborazione con i futuri esternalizzati (ma come sarà garantita una collaborazione esclusiva?), o di tanti cocopro o stagisti, costretti, in questa logica deviata, a strappare un ingaggio al minor prezzo e quindi ad abbassare i costi?
È la morte dell’arte, non quella discussa nei decenni scorsi, e che ha coinvolto artisti e filosofi, bensì quella degradata che subordina ogni attività umana alla dittatura delle ragioni economiche di pochi, innalzate a totem di questi tempi grami.
Mai visto un articolo così lucido e coraggioso! Il re è nudo, ma i giornali non lo dicono. Del resto si sa : ” intervenire se conviene forse è Una regola del giornalismo” !