La libertà barocca e l’imponenza classica: l’opera di Gluck in scena al Teatro la Fenice con al regìa di Pier Luigi Pizzi
di Elena Filini foto © Michele Crosera
IN UNA VIENNA APPARENTEMENTE SCOSSA dalla scomparsa di Francesco I, va in scena, al Burghteater, Alceste, secondo frutto della collaborazione tra il boemo Christoph Willibald Gluck e il librettista livornese Ranieri de’ Calzabigi. È il 1767 e la versione, considerata dallo stesso Gluck un po’ arcaica, subirà modifiche notevoli a Parigi nove anni dopo. Nella storia di questo titolo, capolavoro del genere coturnato illuminista, le versioni in italiano si conteranno in effetti sulle dita delle mani, rispetto al grande successo della lettura in francese. I trecento anni dalla nascita del compositore sono quindi l’occasione per il Teatro la Fenice di fare un’operazione ben oltre l’archeologia musicale. Perché la versione italiana, cui due anni dopo verrà apposta la celebre prefazione, è di grande compostezza formale e con momenti di incredibile suggestione musicale. La première di Alceste viennese, alla prima di venerdì 20 marzo a Venezia, si è in effetti configurata come l’opportuno omaggio a Gluck e la proposizione di un titolo che mai aveva calcato le scene della Fenice.
Ho sperimentato la libertà barocca e l’imponenza classica – spiega Pier Luigi Pizzi a proposito di Alceste – oggi lavoro in sottrazione, per simboli, e per lasciare all’opera la sua nuda bellezza
Positiva inoltre la scelta di operare dei tagli che [restrict paid=true]il pragmatico Gluck aveva già condiviso durante la messa in scena e portre il lavoro a due blocchi con un intervallo centrale a metà del secondo atto e una durata complessiva di poco più di due ore. La soluzione visiva adottata da Pier Luigi Pizzi, quasi uno specialista dell’opera con messinscene di questo titolo a Firenze, Parigi e Milano, è quella della rarefazione. Una scena fondale semifissa in puro stile tragico, con elementi dell’architettura neoclassica anni Trenta, la prevalenza di bianco e nero, pochi ma studiati elementi di attrezzeria e una scalinata funzionale alla disposizione del coro e ai diversi ingressi. Nel costume prevale il bianco con impalpabili chitoni e pepli, insieme agli himation e alla sinuosa redingote usata per Alceste, in un’originale soluzione di antico e stile direttorio.
«Ho sperimentato la libertà barocca e l’imponenza classica – spiega Pier Luigi Pizzi a proposito di Alceste – oggi lavoro in sottrazione, per simboli, e per lasciare all’opera la sua nuda bellezza». L’eleganza, che è il marchio di fabbrica del regista, è ancora una volta indiscutibile. Certo, la stilizzazione può confinare a tratti con una certa staticità che, se impressiva e ieratica nei momenti corali, risulta altrove meno convincente, come ad esempio nella scena della morte di Alceste e del suo successivo ritorno alla vita grazie all’intercessione di Apollo. Scorrendo i nomi delle interpreti che hanno, nel tempo, affrontato il ruolo di Alceste, quattro di loro hanno forse segnano la storia dell’interpretazione della regina di Fera: Maria Callas, Leyla Gencer e, nella versione francese, Shirley Verrett e Jessye Norman.
Non stupisce dunque che Carmela Remigio, che pure ha fatto segnare una prova di grandissimo spessore musicale ed interpretativo, patisca in parte una tessitura centrale e in genere affidata ad una voce di drammatico d’agilità. Tuttavia la sua eleganza, il solido professionismo e il fascino d’interprete l’hanno vista in luce, con grandi consensi in sala. Marlin Miller ha un timbro vocale decisamente confacente al ruolo di Admento: purtroppo non ha la classica compostezza di fraseggio ed emissione richiesta da Gluck e pur portando a termine una prova convincente non beneficia della scelta di proporre il titolo con diapason a 440 hz.
Davvero positiva la prestazione di Zuzana Markova (Ismene) e Giorgo Misseri (Evandro) come pure apprezzabili Armando Gabba (Banditore e Oracolo) e Vicnenzo Nizzardo (Sacerdote d’Apollo e Apollo). Il titolo di Gluck rivela, senza dubbio, accanto ad Alceste, un altro grande protagonista. È il coro che, in puro stile tragico, commenta e sottolinea il dramma. Sotto questo profilo eccellente la scelta di proporre la concertazione a Gullaume Tourniaire, già maestro del coro della Fenice, e finissimo nel definire ogni intervento corale. Emozionante il canto funebre «Piangi, o patria» per inflessioni, rotondità di suono, accenti, terribile e inquietante «Dilegua il nero fulmine», apollineo e solenne il coro finale «Regna a noi con lieta sorte». Insomma un catalogo di screziature che hanno segnato una prova maiuscola per il coro (e per il quaretto vocale scelto) della Fenice, meravigliosa per il settore maschile e contraltile e solo qua e là opacizzata da settori acuti femminili un po’ taglienti. La stessa dovizia e pulizia non è però emersa nel lavoro che Tourniaire ha condotto con l’orchestra e nel collegamento tra palco e scena, che ha in alcuni momenti evidenziato delle incertezze forse anche imputabili al clima d’attesa da prima. Nel complesso tuttavia questa Alceste si rivela una proposta elegante, culturalmente di primo interesse, oltre che un omaggio di gran gusto ad un repertorio erroneamente considerato desueto.
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