Terza ripresa dell’opera di Bizet nel teatro milanese; il nuovo cast non convince in tutto, nemmeno la molto applaudita protagonista. Poco propensa alle sottolineature drammaturgiche la direzione musicale di Massimo Zanetti
di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
LA RIPROPOSTA DI SPETTACOLI di successo può spesso trasformarsi in un banco di prova che ci permette di valutare in che misura le varie componenti (cantanti, direttore, regìa, scene, costumi) interagiscono tra loro. Vi sono casi eccezionali in cui tutte queste componenti assumono un valore altissimo nella loro singolarità ma anche nella fusione tra i diversi elementi, e ciò porta alla realizzazione di eventi destinati a rappresentare dei veri e propri punti di riferimento nella storia di un teatro. In questi casi l’invariante fondamentale è quello relativo all’allestimento, che in momenti di successo viene giustamente presentato nelle stagioni successive: rivestono un’importanza storica allora quegli allestimenti che mantengono una loro ferrea coerenza anche al mutare delle altri componenti dello spettacolo, o che vengono illuminati in maniera differente al variare della compagnia di canto o dell’interpretazione musicale da parte del direttore.
La Carmen che è andata in scena domenica scorsa ha ribaltato ancora una volta gli equilibri tra le varie componenti ed ha a parer nostro dimostrato come la regìa della Dante fosse intimamente legata a certe scelte particolari dei protagonisti
Da questo punto di vista ci sembra non essere questo il caso dell’allestimento di Carmen nella versione che inaugurò la stagione 2009-10, uno spettacolo che riscosse all’inizio un successo notevole, affievolito durante la prima ripresa dell’anno successivo e oggi contestato in maniera aperta non senza qualche buon motivo. Cosa è mutato da allora? Il 7 dicembre del 2009 aveva visto il debutto di una regìa estremamente interessante, “forte”, piuttosto lontana da certe convenzioni e illustrata da un impianto scenografico in completa sintonia di intenti. La Carmen secondo la concezione di Emma Dante sembrava in quel momento cucita su misura soprattutto sulle caratteristiche fisiche e vocali della volitiva Anita Rachvelishvili, cui si contrapponeva il Don José affascinante quanto poco spavaldo di Jonas Kaufmann. La direzione di Daniel Barenboim, di spessore non eccezionale, era tuttavia funzionale allo spettacolo, si collocava in un momento di grande successo personale dell’artista nel suo rapporto di lavoro privilegiato con il Teatro, era avvalorata da un supporto non convenzionale da parte dello stesso direttore nei confronti della visione generale dell’opera espressa dalla regista. Già il passaggio successivo alla concertazione di Gustavo Dudamel e l’assenza di Kaufmann avevano contribuito non poco ad abbassare i toni, anche se si poteva contare di nuovo sulla presenza della protagonista originale. La Carmen che è andata in scena domenica scorsa ha ribaltato ancora una volta gli equilibri tra le varie componenti e ha a parer nostro dimostrato come la regìa della Dante fosse intimamente legata a certe scelte particolari dei protagonisti.
I rapporti di forza nel quartetto composto da Carmen, Don José, Micaela e Escamillo possono essere ovviamente soggetti a diverse interpretazioni, fermo restando il rispetto per un impianto drammaturgico che non lascia spazio a sensibili variazioni nel carattere dei personaggi. Questi rapporti di forza, anche se illustrati attraverso una regìa apparentemente non tradizionale, risultavano nel caso della Dante non molto dissimili da quelli consueti, con una accentuazione – non un ribaltamento – del carattere ribelle e fiero della protagonista e di quello bigotto e buonista di Micaela. Di Don José, piuttosto, veniva sottolineato il carattere solitario e melanconico (che si sposava benissimo con certe caratteristiche tendenzialmente attribuibili a Kaufmann) mentre la figura di Escamillo appariva tutta immersa in un alone di esteriorità autocompiaciuta.
Ora, in questa ripresa dell’opera di Bizet i caratteri dei personaggi e loro valenze dal punto di vista vocale sono cambiati e di molto. Elina Garanča, Carmen di bellezza e di fascino tutt’altro che mediterranei, ha offerto sì una prestazione meravigliosa per omogeneità timbrica e purezza stilistica ma è sembrata impacciata nei movimenti e dava spesso l’impressione di essere come spaesata tra sigaraie, zingare e contrabbandieri: una bionda dell’est capitata lì per caso. Al contrario, José Cura impersonava un Don José estremamente tradizionalista ma i suoi pur ancora considerevoli mezzi vocali non gli permettevano del tutto di onorare i successi di un tempo. Del resto, anche al meglio delle sue possibilità, interpretativamente Cura ci sembra pur sempre un Domingo in formato ridotto. L’Escamillo di Vito Priante, baritono che ha intrapreso nel passato decennio una carriera più che interessante pur partendo da premesse musicalmente ben lontane da questo Bizet, è apparso fin troppo educato ed elegante, tanto che era proprio lui, non certo Cura, a rappresentare davvero il partner ideale per la Carmen inappuntabile della Garanča.
È capitato quindi che gli applausi più sentiti, oltre che a quest’ultima, siano stati rivolti all’efficacissima Micaela di Elena Mosuc, dotata tra le altre cose di una voce morbida e molto espressiva. Buoni i comprimari e altissima la temperatura in teatro, non tanto durante lo svolgimento dell’opera, quanto al termine, quando si è scatenata una notevole bagarre con fischi di disapprovazione rivolti soprattutto al direttore e a Cura. Massimo Zanetti ha aperto lo spettacolo con un Prélude bandistico, accompagnato una Habanera lentissima e per nulla seducente, riscattandosi in parte in certi dettagli strumentali nell’Atto III, ma evitando come la peste di sottolineare quei momenti intensamente drammatici dell’opera (le dodici ultime misure, ad esempio, dove mai tonalità maggiori potevano assumere connotati più disperati) nei quali un Claudio Abbado faceva davvero venire i brividi.