Il Bologna Festival inaugura con la Messa in Si minore. Nel New London Consort si trova però più pretesa che coscienza
di Francesco Lora foto © Roberto Serra
BENE HA FATTO IL BOLOGNA FESTIVAL a inaugurare la XXXIV edizione con la Messa in Si minore di Johann Sebastian Bach: Teatro Manzoni, 18 marzo. Ma nel mercato della musica barocca l’Italia è retroguardia, e la sagacia dell’acquirente è non sempre a prova di perizia o malizia del venditore. Ecco allora la pachidermica partitura bachiana, dove le parti dell’ordinario furono combinate attraverso decenni variando organici e stili in modo enciclopedico, dove il testo liturgico affianca urgenza cattolica e varianti luterane con il pragmatismo di un elettorato tedesco, e dove il gusto è quello di Lipsia ma non di Dresda: cioè non la Sassonia delle porcellane di Meissen e delle galanterie napoletane di Johann Adolf Hasse (una nuova Atene per l’Età dei Lumi), ma quella che affonda compiaciutamente nel peso di contrappunti fitti e sodi, mostrando trombe e timpani come muscoli anziché come festa, e professando il proprio arcaistico horror vacui (mentre nel resto d’Europa l’imperativo era alleggerire, aggraziare, ingentilire).
Ed ecco, per contro, la lettura data a Bologna dal New London Consort, diretto da David Roblou in sostituzione di Philip Pickett tratto in arresto. Undici soli cantori a farsi carico di quasi due ore di musica: chi giovanissimo e inesperto (debuttanti mai prima sentiti nominare), chi carico d’allori ma affiochito dagli anni (il basso Michael George, che tanta discografia ha lasciato). Voci piccolette, pallide di timbro, corte di fiato, tremule d’emissione, verosimilmente educate in mille forbite masterclass ma senza idea di quali concrete colonne d’Ercole debba sfidare un cantante per vantare degna carriera. Sicché i fraseggi rimangono timidi, inerti, approssimativi, negando alla sapienza del compositore l’eloquenza dell’interprete.

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L’intonazione stessa lascia a desiderare, e investe del pari nel difetto un’orchestra anch’essa ridotta al minimo, dove gli archi non hanno il coraggio di staccarsi dalla corda per dare un qualche involo alla frase, e dove ci si riscuote solo per la minuta cornista alle virtuose prese con i dieci metri di ritorte dello strumento naturale. La concertazione di Roblou, senza nerbo, è mero disbrigo dell’indispensabile, a partire da un Kyrie I trascinato con estenuata lentezza (l’errore di prendere in estremo alla lettera la prescrizione di ‘Largo’). Tutto trasuda sforzo fisico, finanche con l’inopportuno aiuto di un intervallo tra Gloria e Credo. Ma lo sforzo fisico non è quello titanico del contrappunto fitto e sodo, della macchina bellica di trombe e timpani, e dello stile colossale apertamente schierato da Bach: è invece quello di truppe guascone e inadeguate, parate dietro pretesti di intimismo e sbaragliate da una partitura in sé pasciuta. Un controsenso ammantato di specialismo.
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