di Riccardo Rocca
La circostanza per cui il Theater an der Wien e la Wiener Staatsoper si sono ritrovati a rappresentare in giorni susseguenti l’Otello rossiniano ed il Barbiere è sembrata centrata per via di due ulteriori ricorrenze: il bicentenario di entrambe le opere (rispettivamente Roma e Napoli, 1816) ed il 54° compleanno dello stesso Rossini (29 febbraio). Se poi vi si pensa anche all’imminente anniversario del 23 marzo 1822, data in cui il compositore pesarese arrivò a Vienna con la moglie Isabella Colbran per presentare una trionfale selezione delle proprie opere, il tutto assume i toni di uno splendido omaggio da parte della città asburgica a Rossini.
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Il Barbiere della Staatsoper ha tuttavia messo a tacere buona parte degli entusiasmi. Non solo infatti si è trattato della quattrocentotredicesima recita di uno spettacolo concepito da Günther Rennert più di mezzo secolo fa, dunque con tutte le conseguenze del caso, ma esso ha anche ampiamente oltrepassato i limiti abituali soliti delle cosiddette recite di repertorio dei teatri di area tedesca. Al punto tale viene da interrogarsi sull’effettiva opportunità di consumare risorse pubbliche destinate alla ‘cultura’ per inscenare uno spettacolo fatto di macerie: tagli testuali che, già fuori moda negli anni Settanta, qui sono stati condotti con soluzioni che fanno a pezzi la sensatezza non solo della drammaturgia, ma degli stessi dialoghi; materiale musicale pre-edizione critica (seppur con alcuni correttivi); regia dei personaggi del tutto affidata all’iniziativa personale di cantanti che però evidentemente si sono ben guardati dal perdere tempo a pensare a chi sarebbero rivolte le loro frasi (vedi quintetto del secondo atto). Se poi a tutto questo si considera un cast che aveva il proprio unico punto di forza nella Berta di Donna Ellen (nel programma di sala ancora Marzellina secondo la filologica versione della Staatsoper), il bilancio è presto fatto.
L’Otello del Theater an der Wien ha invece attestato un approccio di natura opposta, a partire dalla realizzazione musicale di Antonello Manacorda: Wiener Symphoniker in grande spolvero, tempi serrati, brillantezza di colori ed esemplare accompagnamento dei cantanti. Tra di essi spiccava la Desdemona di Nino Machaidze: avvenente nell’aspetto, vocalmente generosa e sotto ogni aspetto – a partire dalla tessitura – perfettamente idonea alla parte scritta per la Colbran. John Osborn è pure un Otello straordinario: spavaldo nella vocalità, fantasioso nelle variazioni e attore di pregio. Nonostante il fantasma di Rockwell Blake non abbia cessato di aleggiare in ruoli di questo tipo, Maxim Mironov è venuto egregiamente a capo della funambolica parte di Rodrigo; eccelso senza riserve è stato lo Jago di Vladimir Dmitruk, anche molto valorizzato nella recitazione dal lavoro di Michieletto.
Dal regista di Venezia siamo usi ad aspettarci riletture operistiche sostanzialmente rispettose dei rapporti drammaturgici interni al testo originale. Così è stato anche in questo caso: la cura e la coerenza con cui il regista ha offerto un’immagine ad ogni situazione musicale sono straordinarie. Nel valorizzarne ogni piccola piega, Michieletto dimostra ogni volta una particolare sensibilità per la musica di Rossini. Grazie ad una tecnica dettagliata, la vicenda di Otello viene dal regista attualizzata in modo sensibile e limpidamente decifrabile: Otello diviene così un uomo d’affari musulmano che si scontra con i pregiudizi culturali dell’occidente. Le uniche riserve nei confronti dell’operazione di Michieletto possono riguardare un paio di forzature accorpate nel finale: Desdemona muore suicida a seguito delle minacce del protagonista ed Elmiro non a lei ed Otello si riferisce quando nel finale unisce in matrimonio Rodrigo ed Emilia (da Michieletto tramutata in sorella di Desdemona). Forse la decisione del regista è una sciagurata conseguenza di quei malintesi che il successo dell’omonima opera verdiana, posteriore di settantanni rispetto al capolavoro di Rossini, sembra tuttora generare. L’effetto-sorpresa presente in Rossini e Berio di Salsa, secondo cui Otello risponde a Elmiro declamando agli astanti un’ironica e terribile frase finale, avrebbe forse meritato di essere salvaguardato.
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