L’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, la Filarmonica della Scala e l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ascoltate a Verona
di Cesare Galla foto © Maurizio Brenzoni
LE CLASSIFICHE SONO COSÌ: TENDONO A INDISPETTIRE, quindi fanno nascere sospetti. Di legittimità, quanto meno. O di obiettività. E lasciamo perdere il resto. Funziona in questo modo già per il campionato di calcio, figurarsi se ci avventuriamo nel campo dell’opinabile per eccellenza, quando ci sono di mezzo l’arte, la creatività, la percezione, le sensazioni. E se poi si pretende di ridurre il tutto a un voto come a scuola, a qualche stellina a fianco di un nome o di un titolo, come nonostante tutto si trova ancora su troppi giornali nelle pagine degli spettacoli, la riprovazione è inevitabile tanto quanto l’accurata astensione da simili semplificazioni.
Lungi da noi stilare classifiche, dunque. Ma se un festival – il Settembre dell’Accademia Filarmonica di Verona, giunto alla venticinquesima edizione – offre la possibilità di ascoltare, nel giro di una dozzina di giorni, tre orchestre italiane fra le più note e reputate, l’occasione per il cronista è davvero troppo ghiotta ed è difficile evitare che il confronto ravvicinato non conduca, alla fine del discorso, a un delineare un ideale “podio sinfonico” del Belpaese.
Le tre compagini sono l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino, la Filarmonica della Scala e l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia. Hanno storie molto diverse, come diverse sono le origini, le tradizioni, le preferenze nei confronti del repertorio. La più antica è Santa Cecilia, che viaggia ben sopra il secolo di attività (fu fondata nel 1908) appartiene così a una ristretta cerchia internazionale, molto selezionata, impreziosita da una collana di nomi fondamentali della musica nel ’900, da Mahler a Stravinskij, da Strauss a Hindemith e poi Toscanini, Furtwängler, de Sabata, Karajan… Perché è noto che per durare bisogna valere.
La più giovane è la Filarmonica milanese, poco più di trent’anni (anno di nascita, 1982) vissuti sull’onda di direzioni musicali prestigiose, ancorché monolitiche almeno per la loro lunghezza (Abbado, Muti…) e all’ombra del più importante teatro d’opera d’Italia, fra i primi al mondo. La compagine fiorentina compirà novant’anni nel 2018 e con piena ragione può rivendicare la qualifica di “orchestra storica”, anche in virtù dei suoi legami con un festival musicale fra i più prestigiosi in Europa, attivo dal 1933. Le recenti complicate traversie del teatro lirico di riferimento ne hanno soltanto un po’ appannato l’immagine, anche grazie alla carismatica figura del direttore stabile, che da trentun anni è Zubin Mehta, questa primavera al traguardo degli ottant’anni. Prima di lui, per più di un decennio aveva animato l’ambiente la non resistibile energia del giovane Muti, che aveva meno di 30 anni quando ne prese le redini nel lontano 1969, mantenendole per più di un decennio.
Com’è noto, non basta il palmarès, antico o recente, per garantire il risultato. E poi, ogni confronto diventa più arduo rispetto alla diversità delle musiche proposte, a quanto i direttori artistici (o magari gli stessi direttori musicali) sono versati nella non facile arte di comporre – nel senso di mettere insieme – i programmi. Da questo punto di vista, ci sentiamo più legittimati a comporre una piccola classifica. Niente che vincoli effettivamente l’impressione conclusiva, ma che dice semmai qualcosa sulla voglia o sulla capacità di sedurre il pubblico anche sulla carta.
Il programma dell’orchestra di Santa Cecilia è parso molto eterogeneo rispetto a quelli della Filarmonica e dell’Orchestra del Maggio. Certo, magari si potrebbero scovare arcane corrispondenze fra la Sinfonia dalla Semiramide di Rossini, il Concerto per violino di Čajkovskij e la terza Sinfonia di Saint-Saëns, famosa (anche) perché prescrive l’organo e il pianoforte fra gli strumenti. Noi ci vediamo più che altro una luccicante vetrina di virtuosismo di vario grado e livello. Qualcosa che induce l’appassionato a scegliere il concerto non per il valore delle musiche eseguite, ma per il richiamo di chi le esegue (fra l’altro, per Čajkovskij un notevole attrazione era data anche dal nome del solista, Gil Shaham). Una precisa scelta di marketing culturale.
Gli altri due concerti, proponevano ben altrimenti fondamentali valori storico-musicali. Sofisticato e profondo il programma dei fiorentini, diviso fra due monumentali “incompiute” del sinfonismo ottocentesco, quella di Schubert in si minore e quella di Bruckner in re minore, la sua Nona. Corrusco e appassionato quello dei milanesi, una monografia dedicata a Schumann fra spirito concertante e sinfonico, con il popolare Concerto in La minore incastonato fra le atmosfere cupe ed esoteriche dell’Ouverture Manfred e la migliore riuscita nel campo della sinfonia, la monumentale Seconda.
Quale fosse il concerto più attraente, parlando dei programmi, si sarà capito. Ma si sa che il grande interprete fa la differenza, anche se suona una banalità (si fa per dire). E che a proposito di orchestre, la bacchetta è decisiva non solo per definire l’interpretazione in quanto tale, ma anche per affermare il carattere, la “tinta”, la personalità dell’orchestra. Premesso che i fiorentini e i romani si sono presentati al Filarmonico veronese sotto la guida del loro maestro stabile da molto tempo, Zubin Mehta e Antonio Pappano, mentre i milanesi sono stati diretti da Riccardo Chailly, che sarà il loro maestro stabile per parecchi anni a venire (e che comunque non è certo a loro sconosciuto per frequenti collaborazioni passate), l’impressione è stata che Pappano eserciti al massimo grado l’autorevolezza artigianale, pratica e decisiva del Kappelmeister, riservando al versante interpretativo un ruolo di “secondo grado”, diretta funzione del fatto tecnico e musicale nella sua purezza. Esattamente il contrario di quanto avviene con Mehta, ieratico ottuagenario che cerca di definire il suono e il carattere dell’orchestra a partire dalla sua idea interpretativa, molto introspettiva, non sempre così comunicativa. Una linea mediana è rappresentata da Chailly, personalità musicalmente prorompente, molto energica ed efficace nel coniugare i due mondi, quello esecutivo e quello interpretativo, con solo una lieve preponderanza per il secondo.
Conclusioni? Solo poche considerazioni. In un programma così sofisticato, l’Orchestra del Maggio è sembrata faticare a creare l’idea di suono che promanava dal gesto di Mehta, specie in Bruckner, e ha fatto rimpiangere il colore della tradizione romantica mitteleuropea, identificandosi piuttosto in un classicismo elegante e un po’ generico, senza particolari dettagli. Nel suo itinerario schumanniano, la Filarmonica della Scala è riuscita spesso a trovare la brillantezza e la drammaticità giuste, dimostrando che il plusvalore di un’orchestra consiste nell’equilibrio ben articolato fra gli archi, nell’eleganza dei fiati, nella possibilità che questi valori diventino funzione di un segno musicale non banale. E certamente quello di Chailly non lo è.
L’orchestra di Santa Cecilia ha gli stessi valori di base, con un tasso di virtuosismo forse leggermente maggiore specie nei legni e negli ottoni. Ma soprattutto ha una duttilità di suono che può rispondere a qualsiasi esigenza stilistica, come imponeva un programma così divagante. Ha una personalità composita ma definita, nel suo affiancare al suo tipico “suono mediterraneo”, estroverso e limpido, una gamma di sfumature davvero poco comune, che il suo direttore maneggia a sua volta con ammirevole musicalità. Tutti gli ascolti sono stati appassionati, a loro modo rivelatori. Comunque sintomo di una felicissima “scuola”. E vale la pena di segnalare che la Filarmonica è parsa, a colpo d’occhio, la formazione con più giovani ai leggii. La classifica? Fate un po’ voi…