di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Uno spettacolo già ampiamente collaudato al Covent Garden nel 2015 e non accolto, per la parte scenica, con una unanimità di consensi da parte della stampa inglese, ha inaugurato la comparsa di Orfeo, anzi di Orphée et Euridice, per la prima volta alla Scala. La prima volta in lingua francese, dopo una lunga catena di allestimenti che data fin dal 1891 e che ha visto alternarsi sul podio e sul palcoscenico direttori e cantanti rimasti nel mito, da Toscanini a Furtwaengler, dalla Stignani alla Barbieri e, più vicino al nostro tempo, il prezioso apporto di De Simone per Riccardo Muti.
I due Orfei sono molto dissimili tra loro: troppe sono le modifiche effettuate dall’autore in vista della versione parigina del 1774 per mantenere intatto il vigore espressivo della forma originale su libretto di Ranieri de’Calzabigi che aveva infiammato il pubblico viennese di dodici anni prima. E l’aggiunta di danze a profusione rischia di inficiare l’equilibrio espressivo di tutto il lavoro, inserendo troppi motivi di distrazione che pure hanno dato facoltà a Hofesh Shechter (regista, con John Fulljames, ma anche coreografo) di mettere in campo una eccellente compagnia di danza che si destreggiava tra movimenti effettivamente diretti a commentare l’azione scenica e altri figurazioni geometrico-ripetitive che sapevano troppo di cose già viste in passato.
Per molti versi la regìa di questo Orphée può essere considerata (o riletta) in chiave psicanalitica. Il protagonista sembra infatti non solo contravvenire alle regole descritte nell’antichissimo mito (ossia il divieto di guardare e parlare alla sposa riportata in vita, una prova di forza che si riproporrà ad esempio nel Flauto Magico mozartiano) ma soprattutto rivivere chissà quali colpe profonde del passato, che rendono veramente impossibile sia a Orfeo che a Euridice di comunicare tra loro. La morte di Euridice non è stato un evento naturale, era forse la morte dell’amore stesso tra i due sposi, incapaci di manifestare i propri affetti. E il contorno musicale di questo Orphée francese, i suoi ritmi carezzevoli (fin troppo carezzevoli attraverso la bacchetta di Mariotti), le danze alla moda, cozzano violentemente con quanto il regista pensa di rivelarci (o che noi pensiamo di vedere nella sua regìa, il che è lo stesso).
Mai come in questo allestimento dell’opera di Gluck si è rimpianta la versione di Vienna e il testo italiano , una versione più asciutta, stringata, che molto meglio commenta l’idea di questo dramma di amore e morte, della figura di un cantore che vaga per il palcoscenico, o resta seduto in un angolo, imbambolato, ad osservare gli eventi dall’esterno, quasi non credesse che la sua Euridice sia scomparsa, tantomeno che la possa recuperare nell’Ade. E quando interviene Amore per la seconda volta, dopo la violazione delle regole, Euridice risorge ma poi scompare dietro le anime dei beati e non la si vede più ricomparire. Dopo la lunga serie di danze dell’atto secondo, Orfeo è ancora lì, ma il giubilo corale è solo di facciata: Euridice non ricompare più e la favola non ha più seguito o, come è molto probabile, è stata vissuta in un sogno.
Protagonista immenso, sia dal punto di vista vocale che scenico è stato ovviamente Juan Diego Flórez, che ha sostenuto tutto lo spettacolo, con poche pause che gli hanno permesso di riprendersi dallo sforzo immane, con una compenetrazione totale del personaggio e della visione del regista. A lui sono state tributate vere e proprie ovazioni, già anticipate al momento della sua aria più famosa.
Euridice fascinosa e appassionata è stata Christiane Karg e Amore, preoccupatissima dei suoi ingressi, la brava Fatma Said. Fondamentale è stato l’apporto del coro diretto da Casoni, anch’esso partecipe al massimo grado del ruolo anche al di là degli aspetti puramente vocali.
L’orchestra della Scala, sottoposta a un altalenante saliscendi di notevole effetto scenico ma che penalizzava a volte il propagarsi del suono nella grande sala, ha dovuto assolvere a un compito molto gravoso, ossia quello di comportarsi da ensemble barocco senza sottostare a una vera e propria concertazione e direzione di quel tipo, ed è andata incontro anche al problema che è sempre stato fatto notare fin dai tempi delle prime rappresentazioni dell’opera alla Scala. Come tutte le opere barocche, ma ancora di più perché non pensata per grandissimi spazi, Orfeo mal si presta alle volumetrie del nostro teatro. Un poco meno Orphée, questo è vero, perché il grande spazio dato alle danze permette un uso allargato del palcoscenico. Ma in questo caso era ancora la forte intimità dei temi trattati a invocare uno spazio più delimitato, nel quale la tragica vicenda potesse mantenere la propria dimensione di dolore. Mariotti è sembrato spesso più attento a servire l’evoluzione storica della partitura gluckiana, sottolineando cioè il lato francese che toglie un bel po’ di fascino alla famosa “riforma” , che ad assecondare la visionaria lettura del regista. Da Mariotti, penalizzato comunque dal fatto di dover dirigere dando le spalle ai cantanti, ci saremmo attesa una concertazione più “forte”, che davvero sposasse più l’idea di un testo di sconvolgente impatto che le convenienze teatrali di una corte quasi sull’orlo di una Rivoluzione.