di Santi Calabrò foto © Rosellina Garbo
Con un unico e insuperabile gesto Mozart mette insieme la rappresentazione di un’azione complessa e la pittura di sentimenti umani dinamicamente sfaccettati; proprio per questo Le nozze di Figaro frustrano le letture moralistiche, per definizione portate a irrigidirsi in un principio unico, portandole a due conclusioni in apparenza ugualmente ben fondate, ma nella sostanza del tutto inconciliabili. Da un lato, l’opera rifletterebbe un certo spirito libertino squisitamente settecentesco; dall’altro, segnerebbe uno stadio di avvicinamento al più esplicito moralismo della Zauberflöte, dove l’amore di coppia diventa condizione di felicità, buon governo e ogni altro bene.
I presupposti per la prima interpretazione sbagliata percorrono tutta l’opera, quelli per la seconda – non meno fallace – poggiano in particolare sul finale, sul senso di raggiunta armonia connesso al ritorno del Conte al talamo: il perdono della Contessa, inteso come suggello ed epicentro morale dell’opera, proietterebbe sui quattro atti della “folle giornata” una luce etica. Distante da queste forzature unidirezionali, e mostrando di intendere il senso superiore della humanitas e della pietas mozartiane, Chiara Muti nelle sue note di regìa osserva acutamente: «La Contessa perdona un infedele… lo perdona sapendo che peccherà… ancora e ancora… lo perdona nonostante tutto… e tutti rispondono “Ah! Tutti contenti saremo così” ma pianissimo… quasi con la paura di spezzare quell’attimo incantato di illusione…».
A partire da questa comprensione di fondo, la lettura di Chiara Muti si è esercitata con successo in una coproduzione fra tre teatri italiani (il San Carlo, il Petruzzelli e il Massimo di Palermo), incluso da ultimo l’allestimento palermitano, con un buon cast e la direzione di Gabriele Ferro. Se la visione di insieme della Muti è giusta, qualche dettaglio non appare altrettanto lucido. La musica mozartiana è infatti la prima garante di un’aperta e sfaccettata pluralità di significati non perché li insegue uno per uno, ma per il modo con cui li ingloba e li media in uno stile alto che non per caso chiamiamo “stile classico”. Nel momento in cui spinge sul pedale del contrasto tra Marcellina e Susanna, realizzato in punta di fioretto da Mozart e Da Ponte, la scena restituita dalla Muti – con un incremento di gestualità da opera buffa nella ripetizione del delizioso strale di Susanna («l’età») – sembra staccarsi dalla musica per tendere a una denotazione troppo accesa: di fatto a una retrodatazione ormai superata verso un ethos di tipi e passioni fisse.
Lo stesso meccanismo di fraintendimento scenico agisce rispetto al contrasto delle classi, così importante nell’opera, ma non nel senso di denotarla come opera rivoluzionaria: pensiamo alla scena in cui Figaro porta in scena il coro di contadine e di contadini che spargono fiori gratificando il Conte per l’abolizione del più odioso dei privilegi feudali (lo ius primae noctis). L’astuzia di Figaro che sa bene quanto il Conte vorrebbe riappropriarsi della prima notte e anche delle successive proprio con la sua promessa sposa, e gli esibisce la gratitudine dei sudditi per la sua magnanimità di facciata, viene raffigurata in scena come istinto di violenza verso il Conte repressa a stento da parte dei contadini e dello stesso Figaro. Ma così si stride con uno dei perni del meccanismo della folle giornata: la supremazia del Conte in quanto “capo” non è mai messa in discussione, e semmai la violenza che non può avere sfogo, sottolineata implicitamente da quella scena mozartiana, è quella che si accende nello stesso Conte, nel contrasto tra l’apparenza del ruolo sociale e le ragioni insopprimibili del desiderio. Al di fuori di questi e di altri dettagli di esagerazione in senso realistico, la tendenza a essere esplicativi rispetto all’azione, alle disposizioni e alle motivazioni dei personaggi è realizzata con chiarezza e con cura del lavoro attoriale, ed è favorita dalle scene di Ezio Antonelli: una pedana centrale e scale laterali in spazi delimitati tutt’al più da vetrate, ma di fatto aperti e comunicanti, così come è qui del tutto aperta la comunicazione tra le classi sociali.
Ferro comunica all’orchestra – non sempre puntuale quanto a precisione – una appropriata nervatura di accenti mozartiani ben conciliati con l’attenzione a una dinamica controllata in relazione alle voci, approdando ad una resa distinta sia della microarticolazione fraseologica che delle ampie campate scandite dagli impulsi ritmici. Il timbro sfaccettato e la verve di Maria Mudryak (Susanna), la linea di canto elegante ed espressiva di Mariangela Sicilia (la Contessa), una vivace Daniela Cappiello (Barbarina) e una discreta Laura Cherici (Marcellina) costituiscono il lato femminile del cast, senza dimenticare l’androgino Cherubino, affidato alla vocalità non prorompente ma efficace di Paola Gardina. Sul versante degli uomini, cantano bene Simone Alberghini (Il Conte di Almaviva) e Alessandro Luongo (Figaro). Il Don Bartolo di Emanuele Cordaro, come la Cherici, si disimpegna bene nell’opera, ma non emerge più di tanto nell’aria del IV atto. Fanno dignitosamente la loro parte Giorgio Trucco (Don Curzio) e Matteo Peirone (Antonio).