di Giampiero Cane
Un concerto di ben pregevole qualità musicale è stato prodotto dal Bologna Festival in quest’ultima fase del programma annuale, dedicata a Luciano Berio. Protagonisti ne sono stati Pierpalo Maurizi e Alberto Modini, affiancati per un pagina da Danilo Grassi e Paolo Nocentini, ambedue percussionisti.
Il programma prevedeva che, incorniciata da due dei sei Encores del ligure, fosse eseguito En blanc et noir di Debussy, quindi la grande Fantasia in fa minore op. 103 di Schubert, e si concludesse con il Concerto per due pianoforti di Stravinskij, seguito da Linea per due pianoforti, vibrafono a marimba, ancora di Berio.
Ciò che ha reso particolarmente interessante e piacevole l’esecuzione è stata l’integrazione delle musiche di Berio con quelle di Debussy e Schubert, musiche suonate senza intervallo e senza intromissione di applausi tra l’una e l’altra, per esplicita richiesta del duo pianistico, mettendo in evidenza un tessuto musicologico, una trama di possibili riecheggiamenti affatto suggestiva e convincente.
Questo tratto che evidenzia in Berio oltre alla natura di compositore quella non meno rilevante di musicologo, è stato poi consolidato dall’affiancamento della sua Linea con il Concerto per due pianoforti del russo occidentale, agnizione quasi naturale tra due musicisti che paiono attribuire un alto valore all’artigianato nel comporre, ma non ancora di moda nel ’73 quando la pagina di Berio fu composta, a causa del relativo discredito di Stravinskij, in quel tempo, tra le avanguardie, dovuto all’infelice contrapposizione messa in campo da Adorno tra i compositore russo e la scuola viennese dei dodecafonici.
Tutti coloro che hanno presente almeno un po’ della musica di Berio sanno che era un musicista che, con grande curiosità, si guardava attorno nel tempo e nello spazio, che ha trascritto e trasformato musiche popolari, dei Beatles, di Boccherini, Schubert, Brahms, Mahler, Monteverdi, Weill, oltre a “concludere” la Turandot di Puccini, lasciata lì dal musicista toscano subito dopo la morte in scena del personaggio di Liu (e non sono pochi né coloro che pensano che lì proprio si concludesse il cuore della scrittura pucciniana né quanti ritengono che sia migliore di quello di Berio, il finale approntato da Alfano, anche se non come musica in sé, ma in quanto integrazione a quel testo).
Il concerto bolognese ha avuto come sede quella che fu la chiesa di Filippo Neri, barocca, bombardata, rappezzata e riattata a sala per spettacoli, rappresentazioni, letture, conferenze, presentazioni, occasioni non proprio popolari perché la sala non è ampia. Ma ha un’acustica strana che della musica appena suonata conserva il suono leggermente a lungo, ma senza sporcarlo con riecheggiamenti. I due pianoforti hanno trovato in Schubert momenti di sonorità profondamente coinvolgenti, nei quali ci si poteva scordare d’essere all’ascolto di due strumenti a percussione e sentirne invece l’esito armonico dell’insieme come fosse stato di diversa natura, archi o fiati. I grappoli di suono delle tastiere diventavano gocce d’acqua sule pietruzze d’un torrente. Con un’incredibile trasformazione del timbro.
Nella prima parte del concerto, mettendo in successione le musiche di tre autori, senza fratture, s’è realizzato una sorta di cocktail, anche se di fatto squilibrato dall’enorme quantità schubertiana immessavi, ma scartato un intento gastronomico, anche ci fosse stati non sapremmo quale Schubert si sarebbe potuto fruire, ché nel pensare le dimensioni, la durata, il rapporto del musicista col pubblico è cambiato fortemente tra l’Otto e il Novecento.
Il concerto ha coinvolto a pieno il pubblico che ha insistentemente chiesto che gli strumentisti suonassero qualcosa ancora; così che ne è venuto fuori un àpres-midi d’un faune, trascritto per due pianoforti che è forse migliore dell’originale. Qui quantomeno il fauno non suonava il flauto.