di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
La Cenerentola nello storico allestimento di Ponnelle, ripreso da Grischa Asagaroff. è riapprodata dopo quattordici anni alla Scala con grande successo di pubblico. Si trattava anche di un omaggio per i cinque anni della scomparsa di Abbado, artefice di un limitato ma importantissimo recupero rossiniano alla Scala con il Barbiere e con questo titolo (ai quali va aggiunto il celeberrimo Viaggio a Reims) negli anni ’70 e ’80 e allo stesso tempo la riproposta di uno degli spettacoli che hanno fatto la storia del Teatro. Un saggio di straordinaria vitalità, appena offuscato dalle oramai impolverate scene dipinte, che dimostra ancora oggi come si poteva (e si può) fare del grande teatro con mezzi limitatissimi. Ponnelle riuscì a rivitalizzare la proposta di Cenerentola concedendo quel che basta al lato comico e caricaturale (ma ancora oggi una parte del pubblico ride per le smancerie delle sorellastre) per immettere sui giusti binari di un classicismo senza tempo ciò che, attraverso una lunga tradizione di rappresentazioni, aveva sempre rischiato di essere considerata una copia minore del Barbiere.
Ottavio Dantone, direttore equilibratissimo per natura, studioso e allo stesso tempo interprete molto spontaneo, ha dato di questo capolavoro una lettura esemplare che non è stata affatto così tendente alla rapidità come è stato fatto notare da qualcuno in sala: a conti fatti la sua Cenerentola è durata persino di più di altre esecuzioni famose, ma la sensazione, a volte, di estrema velocità è dovuta essenzialmente alla felice ripartizione dei momenti comici e di quelli patetici, come del resto è ovvio puntualizzare nel caso di un lavoro che gioca anche sull’alternanza di questi estremi. Nel cast vocale si notava una omogeneità di intenti con il direttore che già di per sé è garanzia di un’ottima riuscita del lavoro complessivo. Forse si poteva rimpiangere a tratti la mancata presenza di un Flórez nel ruolo di Ramiro, ma almeno timbricamente la voce di Maxim Mironov ricordava in maniera non troppo distante quella dell’idolo delle nostre platee. Un principe un poco timido, forse, quello di Mironov, che del resto soddisfa alla caratterizzazione del personaggio come da libretto e ben si sposa con l’attitudine di modestia e di perdono propri del personaggio principale. Mironov possiede qualità evidentissime e non si può attribuire a lui una mancanza di spavalderia canora poco diretta alla riscossione dell’applauso.
Una marcia in più era però in dotazione alla splendida Marianne Crebassa, mezzosoprano di una duttilità incredibile (l’avevamo appena ascoltata in un raffinato programma liederistico tutto francese) che è già Cenerentola sin dalle prime battute e che porta avanti la propria interpretazione di un carattere non facile con estrema sensibilità e coerenza artistica. Di grande valore è stato anche il Dandini di Nicola Alaimo, caricaturale nel gesto ma non nella vocalità, e il severo Alidoro di Erwin Schrott. Il “trio buffo” di papà e figliole è stato dominato dalla presenza di Carlos Chausson, ma anche Tsisana Giorgadze e Anna-Doris Capitelli (soliste dell’Accademia del Teatro) si sono felicemente spese nella caratterizzazione delle capricciose bimbe troppo cresciute. Cenerentola, come del resto il Barbiere, è un’opera che va direttamente incontro ai favori del pubblico di tutti i tempi, che giustamente le accorda tutto il favore possibile e l’entusiasmo dell’applauso finale.