di Luca Chierici foto © Brescia&Amisano
Con un grave ritardo di quasi cento anni è finalmente approdato alla Scala il capolavoro di Erich Wolfgang Korngold, Die tote Stadt (La città morta), titolo che è stato recuperato a livello internazionale da non molti anni, nonostante il lusinghiero successo avuto nella Germania alle soglie del nazismo, parzialmente assimilato anche dal pubblico italiano e che è tuttora al centro di animate discussioni tanti sono le implicazioni musicali, drammaturgiche, psicoanalitiche che ne innervano la struttura. Implicazioni che, se unite al carattere musicalmente ibrido dell’opera, e alle diverse possibilità di intervento da parte dei curatori dell’allestimento concorrono a formare un unicum davvero affascinante e di sicura presa sul pubblico.
Eseguita nel dicembre del 1920 in doppia rappresentazione a Colonia e ad Amburgo, Die tote Stadt nasce dalle suggestioni di un dramma postumo (1901) di Georges Rodenbach, Le mirage, a propria volta rielaborato dallo stesso Rodenbach a partire dal romanzo breve Bruges-la-morte del 1892. La vicenda narrata da Rodenbach è lineare, per quanto brutale, mentre nel libretto di Erich e del padre Jules si attua un cambiamento molto profondo che sconvolge il significato originale del soggetto. In Rodenbach assistiamo alle estreme conseguenze di un morboso attaccamento del protagonista (Paul, nell’opera) al ricordo della moglie morta, Marie: Paul si circonda di oggetti che gli ricordano la moglie ma si innamora poi della ballerina Marietta, quasi una perfetta sostituta di Marie, e al termine di alterne vicende finisce per strangolarla servendosi di un treccia, ennesima reliquia della moglie. Nel libretto preparato da Korngold e dal padre Julius, famoso critico musicale, gran parte della vicenda è in realtà vissuta in un sogno, che viene di fatto trattato secondo acerbe tecniche psicoanalitiche: il protagonista non uccide realmente la donna che si è inserita come sostituzione della moglie morta ma sogna di farlo e in questo modo, al risveglio, riesce ad elaborare la propria ossessione, il lutto nei confronti della moglie, e persino una componente irrisolta di forte erotismo che la moglie stessa non aveva evidentemente soddisfatto.
Su un altro equivoco si poggia il consenso del pubblico che tributò un caloroso successo all’opera al suo apparire, e prima ancora dei colleghi più maturi di Korngold, come Strauss o Puccini o Mahler, che lodarono sia l’opera che in generale la prolifica precocità del giovane Erich Wolfgang. Si può infatti essere attratti irresistibilmente, nella musica di Korngold, da una notevole componente melodica, da un carattere parzialmente operettistico che si mescolano con sapienti tecniche modernistiche (ma mai spinte verso la dodecafonia) e che risultano in un mix accattivante di sicuro fascino. Ascoltando soprattutto il primo quadro si capisce come Puccini (l’autore de La rondine, che è del 1917 e che Korngold quasi sicuramente ascoltò a Vienna) fu ovviamente attratto da questo titolo, così come a Strauss non sarà certo dispiaciuto il “finale lieto” della rielaborazione del soggetto da parte dei Korngold padre e figlio. Non solo, Puccini stesso aveva in un primo tempo pensato al soggetto di Rodenbach, come ci informano le esaurienti note di sala di Arne Stolberg riprendendo una notizia di Jules Korngold.
Lo spettacolo curato da Graham Vick, forse un poco sovrabbondante di dettagli nel secondo e terzo quadro, non sconvolge più di tanto l’assetto dell’opera e centra la propria attenzione sull’abitazione di Paul, arredata secondo un misto di componenti viennesi d’epoca ma anche con un divanetto stile Le Corbusier, parente dell’immancabile chaise-longue utilizzata da molti psicoanalisti moderni nel loro studio. Ogni oggetto ricorda ovviamente la morta Marie e un ampio tendaggio a parete nasconde il paesaggio della “città morta”, l’antica Bruges che non ha più lo sbocco diretto dei canali fino al mare. L’utilizzo di un numero consistente di schermi televisivi sostituisce altre forme di visualizzazione che ricordano la moglie morta, che ogni tanto farà capolino da tali schermi, spesso spenti dal Paul attraverso l’immancabile telecomando. Rose bianche, poi sostituite da rosse stanno a simboleggiare il lutto, poi trasformato in passione all’arrivo di Marietta. Lo scheletro di una porta di ingresso, illuminata variamente con luci al neon sarà di lì in poi sempre presente quasi a simboleggiare la separazione tra sogno e realtà. La musica si fa sempre più complice, con una magnifica aria affidata al tenore, la risposta di Marietta e il duetto finale e il gioco di ammaliante cattura del favore del pubblico è oramai compiuto. Si seguirà da quel momento con apprensione l’avvincente intrigo della vicenda (o meglio del sogno).
Nel secondo quadro la scena si trasferisce di fronte all’abitazione di Marietta (Paul, sempre più geloso, vuole conoscere tutti i dettagli della vita e del lavoro della donna di cui si è invaghito) e prosegue con l’arrivo in barca degli amici e colleghi della donna e con la preparazione di una scena di Robert le diable che la compagnia dovrà presentare in teatro. Le prime scintille minano il rapporto tra Paul e Marietta: il primo è disgustato dai lazzi della compagnia e rivela a Marietta di essersi innamorato di lei solamente a causa della inquietante somiglianza con la moglie Marie. Marietta riesce di nuovo ad ammaliare Paul, ma nell’ultimo quadro, che si svolge ancora nell’abitazione di Paul, scoppia infine la tragedia che culmina con lo strangolamento di Marietta. Il risveglio di Paul chiarirà agli spettatori l’equivoco: Paul ritorna in sé e accetta il consiglio dell’amico Frank decidendosi a lasciare Bruges e la sua atmosfera opprimente.
Questo soggetto intrigante e così bene illustrato da Vick, dalle scene di Stuart Nunn e dalle luci di Giuseppe Di Iorio, necessita ovviamente sul podio di una mano salda e di una completa immedesimazione con la partitura, elementi questi che hanno trovato in Alan Gilbert un direttore ideale, capace di tessere le fila di una partitura complessa e dai multiformi aspetti. E naturalmente altrettanto fuori dal comune dovevano essere gli interpreti principali, sia per affrontare le impervie tessiture vocali sia per rendere al meglio i caratteri non certo facili dei personaggi. Autentiche ovazione hanno accolto alla fine l’uscita di Asmik Grigorian, Marietta straordinaria che vive fino in fondo il proprio ruolo, così come è il caso del Paul di Klaus Florian Voigt, più in difficoltà, a volte, nell’intonazione più che nel sostegno di una vocalità impervia. Splendido Markus Werba nel doppio ruolo di Frank e Pierrot (nel secondo quadro, quando se ne esce con il suo Lied affascinante) e sicura di sé la governante Brigitta (Cristina Damian). Una grande serata, alla fine della quale, e una volta tanto, non ci sono stati che applausi per tutti.
Ma come si fa a liquidare in due parole la prova di Asmik Grigorian? Un soprano eccezionale in tutte le tessiture ma anche un “animale” da palcoscenico quale non si vedeva da tempo. Una prova assolutamente maiuscola di eccezionale bravura, giustamente osannata dal pubblico. Di fronte a un simile talento chapeau e una recensione più attenta