di Alberto Bosco foto © Xavier del Real
Riparando a un’assenza di quasi due secoli, tanto più sorprendente in una città sensibile e aperta alle ragioni del belcanto come Madrid, il Teatro Real ha finalmente messo in scena Il Pirata di Bellini che fino ad oggi non era mai stato allestito nella capitale. La produzione firmata da Emilio Sagi e diretta da Maurizio Benini è stata bene accolta dal pubblico e in generale si può considerare riuscita, anche se certe scelte interpretative meritano qualche riflessione. L’impostazione della regia è stata quella di dare alla vicenda un carattere crepuscolare, quasi decadente, con scene e costumi che fanno venire in mente un’ambientazione borghese da fine Ottocento, più adatti a un Eugenio Onegin di Čajkovskij, che non a questo primo frutto – anno 1827 – del melodramma romantico. Infatti, è vero che in Bellini la drammaturgia è quasi sempre imperniata sul divario tra un mondo esterno di conflitti e un purissimo mondo ideale del sentimento che a poco a poco fa piazza pulita del resto e si afferma come unica verità grazie all’immortale potere della sua musica. Ma il tono elegiaco che ne deriva non è crepuscolare affatto, perché non è l’amore a essere difettoso, bensì il mondo: gli ideali cantati da Bellini sono ancora saldi e luminosi, non corrotti o messi in dubbio dall’interno, come avverrà più tardi nella seconda metà del secolo. Per cui ad esempio, se da un punto di vista puramente visuale si può certo apprezzare l’effetto dell’ultima scena con quel velo nero che tutto avvolge, e certi quadri un po’ desolati che alludono alle incomprensioni tra i personaggi, il risultato della messa in scena è parso estetizzante e non proprio centrato.
Qualcosa di simile si può dire anche della direzione di Benini, il quale è stato sempre molto attento a non coprire i cantanti e a seguirli con grande elasticità ritmica e morbidezza, ma ha accusato una certa tendenza a slentare i tempi e a sfilacciare la coesione drammatica, indugiando in preziosismi sonori, per altro molto interessanti, perché rivelatori dell’intuito teatrale e dell’ansia di sperimentare del giovane compositore catanese, spesso accusato di semplicità e trascuratezza nell’orchestrazione. Quanto ai cantanti, cui si è resa la vita un po’ più facile tagliando ripetizioni nelle cabalette, per restare ai due protagonisti: Javier Camarena, pur cascando, specie nei pianissimi, in un’emissione un po’ nasale, è artista di razza, dotato di un timbro seducente e di un’esemplare fraseggio, flessibile e delicato quanto si deve, ma sempre all’erta, aderente alle parole del testo che arrivano al pubblico chiare e piene di significato; Sonya Yoncheva, ha invece grande facilità vocale e una gran bella voce, ma anche senza voler dar troppo peso ad alcuni acuti poco rifiniti ascoltati alla sera della prima, non è parsa molto dentro al suo personaggio, riscattando una prestazione più canora che interpretativa solo nella cabaletta finale, questa sì, cantata con grande energia e convinzione. Entrambi comunque hanno ricevuto calorosi e meritati applausi, così come il coro, impegnato in molte parti di rilievo.