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Festival Messiaen 2021

A La Grave il compositore viveva il suo legame profondo, mistico e creativo, con la natura. Foto © Bruno Moussier

di Gianluigi Mattietti
20 Settembre 2021
in RECENSIONI, XX e XXI
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Festival Messiaen 2021
Festival Messiaen 2021
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Festival Messiaen 2021
Festival Messiaen 2021

Olivier Messiaen amava ritirarsi in alta montagna, sulle alpi francesi. A La Grave, di fronte allo spettacolo mozzafiato del ghiacciaio della Meije (3983 metri di altezza, descritto dal compositore come un paesaggio terribile e puro, bello e selvaggio, possente e solenne) viveva il suo legame profondo, mistico e creativo, con la natura.

D’estate, in quel paesino di montagna, si tiene da ventitré anni il festival Messiaen. Anche quest’anno, come nel 2015, era prevista l’esecuzione all’aperto, ai piedi del ghiacciaio, di Et expecto resurrectionem mortuorum, partitura per fiati e percussioni, che Messiaen compose nel 1965 come un grande requiem, ispirandosi ai templi messicani, alle piramidi egiziane, alle chiese romaniche e gotiche, ai testi di San Tommaso, e mescolando insieme temi gregoriani e indiani, canti di uccelli della foresta amazzonica e scampanii ripresi dal gamelan balinese. Un affresco maestoso da eseguirsi su quelle montagne, come aveva immaginato il compositore: «Ho desiderato la sua esecuzione en plein air e in alta montagna, a La Grave, di fronte al ghiacciaio della Meije, in questi paesaggi potenti e solenni che sono la mia vera patria». E anche quest’anno, come nel 2015, il tempo purtroppo non è stato clemente. La funivia aveva portato in alta quota l’ensemble Le Balcon insieme ai giovani musicisti dell’IESM (Institut d’Enseignement Supérieur de Musique di Aix-en-Provence), tutti i loro strumenti, il direttore Maxime Pascal, diverse centinaia di spettatori in giacca a vento e scarponi, che hanno atteso l’inizio del concerto, seduti in mezzo al grande prato. Sembrava la Woodstock della musica contemporanea. Ma c’è stato il tempo solo per un’esecuzione parziale del pezzo (oltre all’Appel interstellaire per corno solo da Des Canyons aux Étoiles), poi un temporale ha mandato “a monte” il concerto, costringendo tutti a una precipitosa fuga verso la funivia.

A valle, in un luogo più riparato (l’auditorium Le “Dôme” di Monêtier-les-Bains), Pascal e il suo ensemble hanno potuto dimostrare la loro dimestichezza col repertorio contemporaneo eseguendo tre importanti lavori di Stockhausen, Grisey e Messaien. Gli strumentisti del Balcon apparivano molto bene immedesimati nei ruoli di personaggi-strumento di Michaels Reise um die Erde da Donnesrtag (bisogna ricordare che Pascal e Le Balcon si sono prefissati di eseguire l’intero Licht a Parigi, al ritmo di un’opera all’anno), offrendone un’interpretazione non solo timbricamente molto vivida, ma anche molto teatrale e spassosa, come in un viaggio avventuroso, che corrispondeva molto bene all’idea di Stockhausen di «giocare con i suoni». Tutto avveniva sotto il controllo costante, implacabile del direttore, sempre sul podio, anche nell’esecuzione di Accords perdus di Grisey, un pezzo per due soli corni, che esplorava le molteplici possibilità di intonazioni naturali dello strumento. Travolgente e ricca di colori, infine l’esecuzione di Couleurs de la Cité Céleste di Messiaen, dove si coglieva in maniera molto nitida il gioco di incastri tra gli elementi in gioco: la parte virtuosistica del pianoforte, i canti degli uccelli, gli accordi-colore, le linee gregoriane, i temi-simbolo, le sequenze omoritmiche che suonavano come grandi scampanii.

Secondo tradizione molti concerti del festival sono ospitati in piccole chiese di montagna. Quest’anno il pubblico si è spinto fino all’Alpe d’Huez, una stazione sciistica dove sorge la chiesa Notre-Dame-des-Neiges, costruita per i Giochi Olimpici del 1968: al suo interno, in un abside ogivale, si trova un organo unico, progettato dal compositore Jean Guillou a forma di mano, e realizzato dall’organaro tedesco Detlef Kleuker. Il suo suono limpido, potente, davvero orchestrale, esaltava la ricchezza armonica e timbrica dei pezzi di Messiaen magnificamente eseguiti da Maria Magdalena Kaczor (Apparition de l’Église éternelle, alcuni estratti da Versets pour la Fête de la Dédicace, dalla Nativité du Seigneur, da Méditations sur le Mystère de la Sainte Trinité), grazie anche ad un’acustica priva di grande riverbero.

Baricentro geografico e spirituale del festival resta però la chiesetta de La Grave, che ha ospitato molti concerti serali del festival. Il violoncellista Marc Coppey, accompagnato dal pianista Jean-Frédéric Neuburger ha affiancato tre sonate “classiche” a tre composizioni moderne. Ha colto le inquietudini che serpeggiano nella Sonata in re maggiore op.102 di Beethoven, la dimensione estrosa, moderna, tutt’altro che neoclassica, della Sonata di Debussy, e il tematismo scultoreo della Sonata op.2 di Maurice Emmanuel, coetaneo di Debussy e legato a Messiaen per essere stato suo insegnante al Conservatorio di Parigi, e per avergli fatto scoprire i tesori della musica indiana e orientale. Ha poi eseguito la celebre Louange à l’éternité de Jésus, dal Quatuor pour la fin du Temps, sottolineandone la dimensione sospesa, quasi “cosmica”; un carattere che tornava nella ipnotica Chaconne di Philippe Manoury, dove il pianoforte faceva solo delle note bordone, come un’aura spaziale intorno al violoncello. Completava il programma una prima mondiale, Moplé di François Meïmoun, che evocava il canto di una sirena che affiorava da un flusso strumentale ininterrotto, una trama densa, fatta di semplici progressioni, ma di grande effetto.

In un altro concerto nella stessa chiesa, Neuburger e Jean-François Heisser (che è stato suo insegnante al Conservatorio di Parigi) hanno eseguito Mantra di Stockhausen, con l’elettronica curata da Serge Lemouton (insieme lo hanno anche inciso: cd Mirare MIR518): un’interpretazione piena di calore, dove le figure pianistiche (ricavate da una “forumla”) si muovevano in un tempo circolare, ritualistico, ma dimostrando la loro forza gestuale, tra sezioni ritmiche, incalzanti, momenti di sospensione, incantati, lirici, processi di espansione e raddensamento, crescendo spinti al parossismo, e distorsioni del suono gestite in maniere fluida e intuitiva dai due pianisti attraverso un ipad posto sul leggio del pianoforte. A celebrare il gran finale del festival è infine arrivato un veterano come Roger Muraro, con i Vingt regards sur l’enfant Jésus: un ciclo di due ore di musica che suona a memoria (che ha già inciso più di venti anni fa: cd Accord 465 334-2), con un suono molto fisico, ma giocato anche su magiche risonanze, su infinite nuances timrbiche, con un approccio mistico e possente, con un’energia che promanava dalle mani come un fluido naturale, senza fatica.

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Gianluigi Mattietti

Gianluigi Mattietti

Docente di Storia della musica all'Università di Cagliari, autore di saggi e studi sulla musica del Novecento e contemporanea, collabora come critico musicale con le riviste Amadeus, The Classic Voice, Musica, Il Giornale della Musica, Golem informazione, Il Corriere Musicale.

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