Ancora un teatro con preoccupanti vuoti dovuti alle restrizioni per i ben noti motivi sanitari ha accolto finalmente la ripresa de L’Italiana in Algeri di Rossini, che non si dava alla Scala dal 2011. A quei tempi era stato Antonello Allemandi a riproporla con un cast interessante che contava sui nomi di Pertusi, Brownlee e la Rachvelisvili, mentre ancora nel 2003, agli Arcimboldi, Corrado Rovaris la dirigeva con la presenza di Pertusi, Flórez e la Kasarova. Il denominatore comune consisteva nell’allestimento di Ponnelle, che regnava indisturbato fin dall’epoca di Abbado.
Il grande direttore, responsabile di riproposizioni rossiniane che avevano fatto storia, si era cimentato con l’Italiana in Algeri fin dall’inaugurazione di stagione del 1973 e si era presentato nuovamente con cast differenti nel 1975 e nel 1983. Chi aveva partecipato almeno all’ultimo di questi spettacoli non può dimenticare i particolari di una direzione vivissima e soprattutto condotta con la testa e con il cuore, e la presenza di cantanti come Desderi, Gonzales, Dara e la indimenticabile Valentini Terrani: una serata che si ricorda con particolare nostalgia e rimpianto e che ci è parso rivivere come se fosse ieri nel momento dell’irresistibile Finale primo.
Non si tratta delle solite lodi nei confronti di un passato che si crede a torto felice. Gli è che lo spettacolo funzionava alla perfezione in quel contesto e se la regìa di Ponnelle – oggi ripresa da Grischa Asagaroff, già suo assistente – resiste ancora oggi benissimo con le armi di una lieve ironia e con il rispetto di simmetrie sceniche ai nostri tempi considerate (ingiustamente) come reperti del giurassico, non così si può dire della presa in carico musicale da parte di Ottavio Dantone, direttore famoso e che ha compiuto opera meritoria in diversi contesti ma che non ha affrontato il capolavoro rossiniano se non puntando su tempi rapidi e su una secchezza dello strumentale che si percepiva negativamente già a partire dalla notissima Sinfonia.
Lo spettacolo non costituiva una novità in senso assoluto perché, bloccato dalla pandemia lo scorso anno, era stato proposto in video nel giugno di questo 2021 con un cast leggermente diverso, ma la recita in teatro è parsa comunque a tutti come un evento del tutto nuovo e atteso da lungo tempo. In altri contesti si sarebbe probabilmente avuto da ridire sulla presenza di Gaëlle Arquez, mezzosoprano francese che sembrava avere “studiato la parte” in maniera estremamente coscienziosa quanto carente di partecipazione personale, di omogeneità di stile e che incappava in qualche imprecisione di pronuncia. E la pure eccellente prestazione di Maxim Mironov, lui sì più che partecipe e credibile, contava su una omogeneità assoluta di timbro che alla fine faceva un poco rimpiangere le “irregolarità” di un Flórez. Ma non è il caso di sottilizzare, anche perché il resto del cast era lodevolissimo, a partire da Carlo Lepore, che aveva sostituito Mirco Palazzi indisposto e che era già comparso nello stesso personaggio alla Scala nel 2003 tratteggiando perfettamente un Mustafà con tutti i suoi cambiamenti di umore e di ruolo. E poi si ammirava il Taddeo di Roberto De Candia (che ricordava Enzo Dara) e pure l’autorevole Haly di Giulio Mastrototaro, la a volte petulante Elvira di Enkeleda Kamani e la Zulma di Svetlina Stoyanova. Pubblico si diceva non numeroso ma plaudente, anche – ebbene sì – per le antiche trovate registiche di Ponnelle.