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Pierluigi Billone

A dialogo con il compositore, praticamente ignorato in Italia. La sua ricerca musicale, lontana dalle tecnologie, dall'elettronica, ma anche dalle tecniche estese e dalla manipolazione degli strumenti, parte dall'elemento corporeo

di Gianluigi Mattietti
30 Settembre 2021
in Interviste
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Home Interviste
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Nel curriculum di molti giovani compositori è citato Pierluigi Billone come maestro. È un punto di riferimento nel panorama attuale della musica contemporanea, con una vasta discografia (la Kairos gli dedica un cd monografico praticamente ogni anno). È italiano (nato a Sondalo nel 1960, milanese di formazione) ma in Italia è praticamente ignorato.

La sua ricerca musicale, lontana dalle tecnologie, dall’elettronica, ma anche dalle tecniche estese e dalla manipolazione degli strumenti, parte dall’elemento corporeo, gestuale del suono, dalla sua vibrazione, ne indaga la dimensione rituale e arcaica. E ne ha fatto un outsider, che si muove un po’ ai margini del “sistema”. Aveva iniziato diplomandosi in chitarra e studiando composizione al Conservatorio di Milano, sotto la guida di Davide Anzaghi…

«In quel periodo di studi in Conservatorio ho cominciato diventare inquieto, ho fatto due mesi da Manzoni, due mesi da Gorli. E alla fine me ne sono andato. Non imparavo quello che mi serviva. Poi per cinque anni, dal 1985 al 1991, ho lavorato nella sezione di musica contemporanea della Scuola Civica, allora diretta da Alessandro Melchiorre. Ero di fatto l’unico dipendente, quindi mi occupavo di tutto, lavoro d’ufficio, catalogazione… In quegli anni passarono da lì i più importanti compositori dell’epoca: Ferneyhough, Donatoni, Rihm, Stockhausen, Carter, Xenakis, Dufourt, Levinas. Ricordo le lezioni di Grisey, straordinarie: era una persona che ti faceva venir voglia di scrivere. E io, anche se non ero iscritto a quelle classi, seguivo tutto dalla mia sedia, registravo tutto. È stata un’esperienza molto formativa. Poi tutto è cambiato negli anni ’90, ci sono stati sconvolgimenti tali per cui quelle fortunate circostanze non si sono ripetute. È cambiata la natura della scuola, e tutto questo improvvisamente è svanito».

Le tue prime composizioni risalgono a quel periodo?

«Non studiavo più composizione, ma a contatto con quella realtà, era naturale che ti venisse voglia di scrivere. Conoscevo tutti nell’ambiente musicale milanese, i compositori, gli interpreti, gli ensemble, ma li conoscevo in veste di lavoratore della sezione, quindi non venivo preso in considerazione come compositore. Insomma, non potevo fare nulla in quell’ambiente, così nel 1991 me ne sono andato, in Germania. Mi sono trasferito a Friburgo, dove ho frequentato sei semestri alla Musikhochschule con Lachenmann. Rispetto a Milano è stato un grande passo avanti, anche se, non essendo “figlio di papà”, ho vissuto per dieci anni in una misera stanzetta, con circa 300 euro al mese, che venivano soprattutto da borse di studio e dalle mie prime commissioni».

Poi però sei ancora tornato in Italia.

«Sì, nel 2000 sono tornato in Italia, per motivi squisitamente personali. Avevo ancora la mamma, pensionata, che viveva a Milano. Ma non avevo un lavoro, non avevo una lira. Mi sono proposto per tenere dei seminari, ho fatto domande a tappeto, senza ricevere mai una risposta. Non ho avuto né commissioni né esecuzioni. Così, dopo tre anni sono ripartito. Me ne sono andato in Austria. E ho fatto benissimo. Da allora vivo qui, dove quello del compositore è un lavoro socialmente riconosciuto, sono entrato in contatto con il Klangforum, con Beat Furrer, ho ricevuto numerose commissioni, ho potuto insegnare all’Università di Graz, ho avuto riconoscimenti ufficiali, e sono arrivati anche dei premi, molto importanti per me, perché per anni mi hanno permesso di pagare l’affitto. Adesso oltre che alla composizione dedico molto tempo all’insegnamento, tengo seminari, masterclass, conferenze, corsi estivi, soprattutto in Austria, in Germania, in Svizzera. Recentemente ho fatto un semestre come visiting professor a Barcellona».

In Italia niente?

«Negli ultimi trent’anni credo di aver avuto tre esecuzioni, forse quattro in Italia».

Lo studio con Lachenmann ha influenzato le tue composizioni negli anni ’90?

«Ci sono sempre degli influssi più o meno riconoscibili. Ma secondo me, un compositore diventa tale quando sente dentro di sé la necessità di “re-iniziare”. Non rispondere cioè nel modo che gli è noto a domande come “cos’è il comporre?”, “cos’è la voce?” Se io rispondo non lo so, vado alla ricerca. E scopro che la voce è un corpo che vibra, non necessariamente parla, canta, articola parole, concetti, significati. Avvertivo già allora che la mia libertà consisteva nell’avvicinarmi a tutto questo spogliandomi di tutto ciò che già conoscevo, e anche lasciandomi alle spalle tutto quello che c’era di ideologico nel comporre, come l’idea di avanguardia. Questo è stato il primo approccio, liberatorio. Poi serviva la fase della costruzione, cioè: come faccio a rendere udibile per altri ciò che mi sembra così prezioso e importante. La cosa non è affatto ovvia, può anche non riuscire, devo avere le capacità anche tecniche: tutti siamo emozionati di fronte alla luna, poi però ci vuole Leopardi per trasformare quest’emozione in poesia!»

L’esplorazione della voce come atto puro, come corpo vibrante, è una ricerca che inizia negli anni 90 con pezzi come Ke. AN-Cerchio, ma che si estende fino a lavori recenti come Phonogliphi e Face…

«I miei primi pezzi per voce avevano dei titoli, che generavano sempre molta curiosità, basati su parola in lingua sumera – una cultura che non pensava con le categorie greche. Nella voce avevo trovato la possibilità di riscoprire un “prima” della cultura materiale. In Face ad esempio ho definito i materiali usati “atti vocali”, cioè qualcosa che ha a che fare col corpo, con l’apparato fonatorio ma anche con il diaframma. Ho cercato qualcosa di pre-verbale, che potesse parlare al di là di una cultura o di una lingua. Ho cercato di condurre l’attenzione dell’ascoltatore attraverso una specie di labirinto, per arrivare alla fine al centro, al puro atto vocale, come un pugno nella pancia. Come un grado zero, dove l’umanità pulsa con un cuore».

E nella musica strumentale?

«Lo stesso ragionamento vale per il suono strumentale. Cos’è un violoncello? Se rispondo non lo so, poi devo cominciare un lavoro di esplorazione, che mi porta a sentire il violoncello come se fosse un corpo, un essere che parla, canta, vive. È sempre questo il lavoro che faccio, un lavoro sia pratico che teorico, che precede la fase della “costruzione”. Mi isolo, e per un paio d’anni studio uno strumento, faccio solo quello. Cerco un contatto con lo strumento perché questo mi parli ancora. Per questo nel mio catalogo ci sono cicli di pezzi dedicati agli archi, poi al fagotto, ecc. Nei tre pezzi per chitarra elettrica [Sgorgo Y. N. oO] ho accumulando centinaia di ore di studi, per un anno e mezzo: frammenti musicali che nascono in modo spontaneo, poi vengono elaborati in tutte le varianti possibili, quindi organizzati in maniera sistematica, come degli archivi di suoni, una reale biblioteca fatta di appunti e di registrazioni. Così mi preparo il terreno. Poi inizia la composizione vera e propria, che è un progetto di costruzione, di rapporti: devo scrivere per un altro musicista, terzo rispetto a questa esperienza. Devo far nascere da una fonte spontanea un lavoro che si cristallizza in una “forma momentaneamente stabile”».

Qual è stata l’evoluzione della tua musica dagli anni ’90 a oggi?

«Progressivamente ho ampliato l’area dei miei interessi, sono entrato in nuovi tipi di suono, ho cercato la rottura, la microdimensione, gli impulsi, i tagli veloci di tempo. Interessandomi ad altri tipi di materia sonora, è scaturita anche la possibilità di nuovi tipi di costruzione. Poi esplorando il mondo delle percussioni [nei cinque pezzi per un solo percussionista, da Mani. De Leonardis a Mani. Gonxha] sono entrato in contatto con strumenti di natura completamente diversa, che reagiscono in maniera diversa. Ad esempio, la voce e gli strumenti a fiato, che sono legati al respiro, offrono dei modelli di durate, mentre le mani non corrispondono più al respiro, ma ad altri tipi di ritmo».

Quali sono le musiche che hanno alimentato e stimolato queste tue idee compositive?

«Oltre a Lachenmann e Sciarrino, da cui ho imparato tantissimo, ci sono molti compositori che mi interessano. Ad esempio Richard Barrett, che conosco da anni. Mi piace perché va dritto al cuore dei problemi, è uno della New Complexity, ma è avventuroso e ha fatto per anni improvvisazione. Lui insiste su due punti, visione e resistenza (all’appiattimento, all’omologazione), e lo dimostra in Constructions, ciclo composto da 20 pezzi che possono anche essere eseguiti singolarmente o in varie combinazioni. Ma mi sono sempre interessate le cose che a scuola non si studiano. Ad esempio la musica antica, le ricerche musicologiche sul canto gregoriano di Solesmes. Ma ho studiato anche la musica tibetana (qui a Vienna c’è un istituto di cultura tibetana). Una fonte di ispirazione è sempre stata il free jazz degli anni ’60, nel quale trovo un’esplosione di creatività e di spiritualità irripetibili. Mi interessano poi certi campi di improvvisazione di rango elevato, parlo di Anthony Braxton o Evan Parker. O ancora la scena elettronica giapponese, quella degli Incapacitants, gruppo di “noise music” che lavora solo su rumori e a volumi parossistici. E lì trovo una traccia dell’antico Giappone. Le cose più interessanti le trovo ai margini. E quando ti accorgi che ci sono energie così preziose che sopravvivono nella periferia della cultura dominante, il mio desiderio di stare lì, perché lì c’è qualcosa da imparare».

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Gianluigi Mattietti

Gianluigi Mattietti

Docente di Storia della musica all'Università di Cagliari, autore di saggi e studi sulla musica del Novecento e contemporanea, collabora come critico musicale con le riviste Amadeus, The Classic Voice, Musica, Il Giornale della Musica, Golem informazione, Il Corriere Musicale.

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