intervista di Stefano Cascioli foto © Tom McKenzie
Nella splendida cornice di Maccagno, sulla sponda lombarda del Lago Maggiore ai confini con la Svizzera, incontriamo il pianista Filippo Gorini, che ci parla della sua prima registrazione discografica.
Filippo Gorini, partiamo dalle origini. Come si è avvicinato al mondo della musica? Quali sono stati i suoi primi passi?
«Ho cominciato a suonare all’età di cinque-sei anni, stimolato dall’ambiente famigliare. Benché i miei genitori siano dei fisici, in casa si è sempre respirata aria di musica. Sono stato fortunato ad avere già il pianoforte in casa, perché mio padre aveva studiato sino al compimento medio. Fino a dodici anni ho visto il pianoforte come un hobby, poi è stato folgorante l’ascolto di Schubert e Beethoven interpretati da Kempff e Brendel, che mi hanno fatto innamorare della musica. Ho cominciato così a studiare con serietà, iniziando ad affacciarmi al mondo dei concorsi. Poi a 14 anni ho avuto la fortuna di entrare nella classe di Maria Grazia Bellocchio, con la quale, grazie alla sua competenza e al suo affetto, ho avuto modo di sviluppare il mio pianismo e la mia cultura musicale».
Come è nata l’idea di studiare le Variazioni Diabelli, che troviamo incise nel suo album di debutto?
«È stata la mia insegnante a consigliarmi lo studio delle Diabelli, quando avevo sedici anni ma mi sono avvicinato allo spartito solo qualche anno dopo, in una circostanza davvero particolare. A seguito della frattura di una vertebra, per quaranta giorni mi è stato vietato di rimanere seduto per più di trenta-quaranta minuti al giorno, allora ho pensato di sfruttare quel poco tempo che avevo a disposizione affrontando una variazione alla volta, così è iniziato lo studio di un’opera che mi ha riservato grandi soddisfazioni. Oltre ad averle portate al diploma, le Diabelli sono state decisive per la vittoria del concorso “Beethoven”. Inoltre ho avuto il piacere di perfezionarle con pianisti del calibro di Lortie e Gililov, col quale tuttora studio al Mozarteum, ed è proprio grazie alle Diabelli che ho destato l’attenzione di Brendel, che le ha definite “la più grande composizione pianistica della storia”».
Alfred Brendel è un Maestro piuttosto riservato, raramente si concede ai riflettori e nel corso della carriera ha seguito pochissimi allievi. Che personalità si è trovato di fronte?
«Brendel è una persona molto generosa, l’ospitalità che mi riserva nella sua dimora a Londra è davvero totale. Perfezionarsi con lui è straordinario, soprattutto quando si affrontano gli autori che lo hanno reso grande, Beethoven e Schubert su tutti. La sua attenzione nei confronti dello spartito è davvero maniacale, motivo per cui esige la cura di ogni minimo dettaglio».
Tornando al suo cd, cosa l’affascina di più delle ‘controverse’ Diabelli?
«Le Diabelli sono molto particolari, poiché, nonostante il difficile periodo in cui Beethoven le ha composte, sono ricche di ironia e positività. Le considero una Commedia, nel senso letterario del termine: un’opera di carattere leggero, che varia tra il sublime e il volgare. È molto difficile rendere con efficacia il contrasto di questi caratteri, che spesso mutano velocemente, tra una variazione e l’altra. Nonostante le notevoli libertà che si prende Beethoven nel trattamento del tema, il senso di danza non viene mai a mancare. È affascinante come, da un valzer popolare e quasi risibile si raggiunga un minuetto dai tratti celestiali».
In effetti, la ricerca della trascendenza divina è un aspetto che troviamo in varie composizioni del tardo Beethoven…
«Sì, ed è un senso del divino vissuto molto umanamente. A differenza delle Goldberg di Bach, che di trascendenza divina sono permeate interamente, e che si concludono col ritorno al tema iniziale, in un senso ciclico, orfico, le Diabelli raggiungono con lenta trasfigurazione il minuetto culminante. È un viaggio al termine del quale sarebbe impossibile riascoltare il tema, e da cui ascoltatore ed esecutore escono profondamente mutati».
Negli ultimi decenni la prassi esecutiva filologica ha messo in dubbio certi aspetti dell’interpretazione tradizionale. Come vedi l’esecuzione su strumenti originali?
«Indubbiamente è stata un grande scoperta, ha cambiato il modo di interpretare, oltre che di ascoltare la musica. Io, personalmente, ascolto le incisioni storicamente informate con grande curiosità, ma il mio parere varia a seconda degli autori. Per Mozart, ad esempio, prediligo il fortepiano, ma per Beethoven amo l’esecuzione su strumento moderno. Credo che la scrittura di Beethoven vada oltre le possibilità tecniche del fortepiano di primo ’800, che fa fatica a realizzare quanto richiesto dalla partitura. D’altronde, è proprio grazie alle intuizioni del genio di Bonn che lo strumento si è potuto evolvere nei decenni successivi».
Il suo repertorio è molto vasto e comprende grandi opere della musica contemporanea. Secondo lei, è possibile accostare i grandi capolavori del passato a composizioni di Stockhausen, Boulez e Sciarrino, o è meglio, come spesso richiesto, tenere le due sfere separate?
«Il fatto di intrecciare l’antico col moderno, è una cosa a cui tengo molto. È indispensabile per un musicista avere almeno un minimo di curiosità nei confronti della musica nuova, anche perché l’approccio con la contemporaneità spesso aiuta a capire meglio le opere del passato. Inoltre, i pianisti delle generazioni precedenti hanno sempre suonato la musica a loro contemporanea, non vedo perché non lo si possa fare anche oggi! Un programma che comprende lavori dei nostri giorni, se ben concepito, può conquistare anche il pubblico meno preparato. Trovo affascinante la reazione, positiva o negativa che sia, del pubblico di fronte ad una cosa per lui nuova. Se l’ascoltatore si sente colpito da una certa emozione, vuol dire che l’interprete ha compiuto la propria missione».
Oltre ai già citati Brendel e Kempff, quali sono i pianisti a cui si ispira maggiormente?
«Dei pianisti viventi Pollini, mentre se guardo al passato provo una grande venerazione per Edwin Fischer. Inoltre, pur essendo distanti dal mio modo di suonare, stimo molto Richter e Zimerman».