di Alberto Bosco foto © Xavier del Real
Nessuno si sarebbe aspettato che il debutto a Madrid della Carmen di Calixto Bieito sarebbe avvenuto in un clima politico di alta tensione per l’esacerbarsi delle spinte secessioniste in Catalogna. La ripresa del Teatro Real ha infatti coinciso per pura casualità con i momenti più allarmanti di una crisi politica che ha avuto un forte impatto su tutti gli spagnoli, risvegliando sentimenti nazionalistici e manifestazioni di appartenenza alquanto inusuali. Con i balconi della città tappezzati di bandiere e gli animi surriscaldati dalle continue notizie preoccupanti, le sparate di Bieito contro i più triti stereotipi dello spagnolismo (di quello post-franchista, non di quello romantico), hanno riacquistato il carattere polemico delle origini, di quando nel 1999 al Festival di Peralada la sua visione dell’opera di Bizet aveva suscitato scandalizzate reazioni. Da quel momento la produzione ha girato mezzo mondo, diventando l’alternativa in chiave moderna più accreditata e riuscita della Carmen in versione ottocentesca, quasi una sorta di classico. Così c’è voluta la crisi catalana perché le provocazioni ormai assimilate ritrovassero tutto il loro urticante potenziale, alimentando quel tanto di polemiche giornalistiche e di foyer che alla fine attirano sempre il pubblico ad andare a teatro, con il risultato che le diciassette repliche di una produzione ormai vecchia di quasi vent’anni hanno fatto il tutto esaurito.
La Spagna di Bieito è dalla prima scena all’ultima di uno squallore disarmante, niente più che pacchianeria e degrado
Sulla Carmen di Bieito si è scritto tanto e, giustamente, la si considera come uno degli spettacoli più azzeccati degli ultimi anni. La coerenza e la fantasia visuale con cui l’assunto di fondo è sviluppato sono indubbie, e la sua ambizione di trasformare il capolavoro di Bizet in un’opera dal carattere spagnolo, puntando tutto sulla rappresentazione di un vitalità sgangherata e una fisicità animalesca a scapito delle raffinatezze alla francese, è pienamente legittimata dal successo di pubblico che, dapprima indispettito, è poi sempre più elettrizzato dall’energia vitalistica dal palcoscenico. Qui al Teatro Real la chiara scelta di spogliare il lavoro della patina borghese ottocentesca, ha avuto l’inconveniente di spingere la direzione musicale di Marc Piollet, pur rispettabilissima ed efficace, ad alcuni eccessi di sonorità e a una certa assenza di charme, che hanno fatto passare in secondo piano le preziosità della partitura, soggiogata dalla prepotenza e dai ritmi cinematografici dello spettacolo e ridotta quasi al rango di colonna sonora.
Da una parte l’operazione di Bieito è fedele all’idea di Bizet, che era stata quella di usare i luoghi comuni più scontati sulla Spagna (il paese dell’avventura, della passione, dei briganti, delle notti profumate e delle corride), e di far nascere a poco a poco da questo miscuglio innocuo pensato per l’evasione dei buoni borghesi parigini una tragedia cruenta e spiazzante. Bieito, infatti, non ha fatto altro che usare un altro immaginario altrettanto convenzionale, quello della Spagna del cosiddetto “destape”, degli anni della liberazione dei costumi seguiti alla fine della dittatura franchista. Ma a differenza dell’immagine romantica della Spagna quale l’ultimo paese non modernizzato, imborghesito o intellettualistico d’Europa – un’ immagine affascinante che ha esercitato il suo influsso fino a Novecento inoltrato e a tutti i livelli della cultura –, la Spagna di Bieito è dalla prima scena all’ultima di uno squallore disarmante, niente più che pacchianeria e degrado: Carmen non è una giovane che vive i propri amori con l’incoscienza di una sensualità senza morale, ma una vittima che tira a campare, calcolatrice e subdola, i contrabbandieri non hanno nulla del bandito romantico, e in generale quel mondo che attira Don José come espressione di una libertà superiore è qui tanto ripugnante quanto quello dei militari, e nemmeno la pura e coraggiosa Micaela è risparmiata, trasformata com’è in una sciacquetta piccoloborghese in vestiti hippie. Niente da eccepire, per carità, ma così facendo si annulla il colpo di genio di Bizet, per cui nell’originale dalla fiabesca spensieratezza e dal gioco della seduzione si passa, dopo la sinistra scena delle carte, a un sorprendente tragico epilogo, di una crudezza espressiva che rasenta il verismo.
Molto buono il cast vocale, a cominciare dal Don José di Francesco Meli, che è andato in crescendo nel corso della serata, e dalla Carmen di Anna Goryachova, che avrebbe meritato più applausi (non ha certo una voce imponente, ma ha grandi doti di attrice, un bel timbro e un’ottima tecnica). Bravissimi anche Eleonora Buratto, una Micaela dalla voce piena, calda e lirica (peccato solo per l’incomprensibile pronuncia del testo) e Jean Teitgen, ammirevole attore-cantante nei panni di Zuniga,