di Luca Chierici
A costo di ripeterci, non è cosa nuova che un titolo barocco, per di più così importante come Theodora di Händel, sconvolga in maniera positiva le a volte sonnacchiose consuetudini scaligere, che grazie alla recente programmazione in tempi di pandemia ha subìto un ripiegamento verso il repertorio più tradizionale sia pure adatto al recupero di notevoli fette di pubblico.
Eppure Händel, con tutti i ritardi che hanno caratterizzato le poche messe in scena o le esecuzioni in forma di concerto di opere e oratori nei programmi del nostro Teatro, suscita ogni volta un entusiasmo di pubblico fenomenale. Un pubblico che, tranne rari casi, non teme di affrontare tre ore di musica (meravigliosa) perché qui tutto è stupore, incanto, per le arie e i pezzi d’assieme di fattura straordinaria, per i recitativi che tutto dispiegano tranne che la spesso noiosa consuetudine di tanti “secchi” dell’opera barocca italiana, per una musica che si fa pura narrazione attraverso una continuità che non dovrebbe essere interrotta dai continui applausi del pubblico più pronto a premiare il prodotto – pur spesso assai apprezzabile – della vocalità del tal cantante invece che trattenere le emozioni per lasciare che sia la musica stessa ad accumulare tensioni e momenti di scioglimento in vista almeno delle conclusioni delle tre parti, in questo caso, che suddividevano l’azione.
Theodora è uno degli ultimi Oratori dello Händel completamente inglese nell’espressione linguistica – grazie qui al libretto di Thomas Morell – e lavoro che non ebbe all’inizio una accoglienza di pubblico in linea con la sua profondità, con il suo valore. Eseguita oggi con notevole frequenza all’estero quanto ignorata da noi, forse già un poco anacronistica nel periodo storico nel quale fu rappresentata, a causa del soggetto, Theodora narra del contrasto tra il clima di festa pagana imposto ad Antiochia dal Governatore Valens in occasione dei festeggiamenti dell’Imperatore Diocleziano e la fede incrollabile dei Cristiani che ovviamente si rifiutano di partecipare all’azione. L’ufficiale romano Didimo, convertitosi segretamente al Cristianesimo è aiutato dal proprio superiore Settimio nel vano tentativo di fare escludere i Cristiani dall’obbligo dei festeggiamenti, proteggendo così anche l’artistocratica Teodora, da lui amata, e la confidente di lei, Irene. A nulla valgono le suppliche, e per Didimo e Teodora è certa la condanna a morte. L’oratorio si chiude con un ineffabile Coro inneggiante all’amore divino e allo spirito di sacrificio dei protagonisti. Paul Henry Lang parla a ragione di “stile autunnale di Händel” e di un linguaggio differente da quello al quale il nome del compositore è solitamente associato. E nota giustamente come Theodora sia l’unico Oratorio, con il Messiah, a seguire un soggetto cristiano senza purtuttavia sposare del tutto una filosofia propria di quella religione: è vero che in Theodora la trama è attinente alla persecuzione dei credenti e che prevalga in questo oratorio l’idea della morte come passaggio verso la vita, ma il fascino ultimo di questo capolavoro sta anche nell’intimo aspetto dell’amore tra Didimo e Teodora, nella mancanza di trionfalismi nei cori e in altri motivi più esteriori tipici della produzione haendeliana più nota. Questi aspetti lasciarono parzialmente sconcertato il pubblico di allora, e anche oggi insinuano più di un dubbio nell’ascoltatore abituato ai lati più grandiosi che caratterizzano spesso lo stile haendeliano. Il soggetto è sì narrato con una dovizia di arie, cori e duetti di intensità straordinaria ma se la scelta dei cantanti per le prime esecuzioni furono evidentemente in relazione con la specificità (e la disponibilità in loco) delle parti vocali, è purtuttavia lodevole lo sforzo da parte del musicista di non concedere che il dovuto alla categoria del virtuosismo per un cast che ha tanto più successo quanto, come l’altra sera, si presenti omogeneo e adatto a un perfetto lavoro d’assieme.
Certo, tra le voci che hanno dato vita a questa Theodora si trattava anche di una questione di seniority e quindi di consuetudine con uno stile difficilissimo da padroneggiare, perché i virtuosismi canori sono presenti sì ma in vista di un significato espressivo ben più alto. In tal senso protagonista assoluta è stata l’Irene di Joyce Di Donato, sublime nel dispiego dei propri mezzi collaudatissimi ma ancor più per la straordinaria partecipazione a un ruolo che richiede una assoluta predisposizione d’animo per entrare nel complesso carattere della protagonista. La Di Donato ha ricevuto al termine l’accoglienza più calorosa, dopo avere incantato il pubblico attraverso i momenti più alti del lavoro. Ancora di più della pur bravissima Lisette Oropesa, Teodora quasi tranquilla di fronte a un ruolo da lei reso più patetico che eroico – ma la caratterizzazione è peraltro chiaramente deducibile dal libretto. La Oropesa esibisce una voce dal timbro chiaro, si serve di una recitazione perfettamente intellegibile e rimarrà sempre il dubbio, dopo avere ascoltato questa recita, che la sua interpretazione sia stata non modellata sulle proprie caratteristiche vocali, bensì sul carattere del personaggio. Anche a lei il pubblico ha tributato sinceri applausi che premiavano i suoi momenti più ispirati – si ricordi quanto si è detto però a riguardo dell’inopportunità di tutte queste cesure che spezzano la continuità della musica. Meno impressionante in un ruolo che però non lasciava grandi spazi interpretativi è stato il grande Michael Spyres, beniamino di gran parte del pubblico, mentre il controtenore Paul-Antoine Bénols-Djian (Didimo) ha dato prova di una duttilità vocale ed espressiva di primo piano, anche se non diretta a sottolineare in particolar modo il lato virtuosistico, come fanno tanti colleghi. Il biondissimo baritono John Chest, il cui aspetto forse contrastava un poco con la malvagità del ruolo, è stato un giustamente autoritario Valens. Dirigeva l’ottimo ensemble “Il Pomo d’Oro” con il suo coro il giovane Maxim Emelyanychev, dall’eccellente curriculum di studi e di attività, straordinario factotum che fin dall’inizio ha coinvolto tutti i presenti con un entusiasmo pari alla velocità e alla complessità dei propri movimenti tesi a dominare l’ensemble e i cantanti tutti.