L’ensemble diretto dal vulcanico Stefano Montanari ha proposto composizioni di Corelli, Bach, Händel. L’arte dell’abbellimento, tra limiti e libertà
di Santi Calabrò
NONOSTANTE IL NOME – L’Estravagante – sia così promettente per chi si aspetta dall’esecuzione della musica barocca innanzitutto il recupero delle prassi esecutive coeve, proprio dalle parti del capriccio viene in luce l’impraticabilità di fondo connessa all’utopia storicista: la “stravaganza” (senza “e”) che caratterizza in varia misura l’esecuzione dell’Estravagante non ne costituisce affatto l’aspetto più “autenticista”; a volte per effetto di una libertà interpretativa che pure, in superficie, potrebbe apparire come il portato di una filologia ben digerita, si supera il limite della reinvenzione arbitraria. Ospite della stagione della Filarmonica Laudamo al Palacultura di Messina, l’Estravagante – in questo concerto la formazione in trio: Stefano Montanari (violino), Francesco Galligioni (violoncello) e Maurizio Salerno (clavicembalo) – percorre le vie di Corelli, di Bach e di Händel. È soprattutto la verve vulcanica di Montanari a dare l’impronta al complesso, a trascinarlo in progressioni in cui la pulsazione ritmica tende a farsi furore dionisiaco, in modulazioni che illuminano i vari campi tonali di dinamiche cangianti, in inflessioni accentuative che vivificano il tessuto rendendolo nervosamente tensivo. In tutto ciò, tuttavia, la debordante facilità del violinista non perde occasioni di esercitare l’arte dell’abbellimento. Di per sé, niente di più barocco; di fatto, per come Montanari realizza l’ornamentazione, una continua tentazione di dérapage: l’orizzonte di senso delimitato dal discorso musicale è spesso minacciato da volute che per lo più non riescono a inserirsi con congruenza nel corpo espressivo, e paradossalmente finiscono per suonare come interpolazioni moderniste o addirittura post-moderniste. Il virtuosismo mal temperato dell’ornamentazione tende dunque a farsi straniante, in varia misura non pertinente: stravagante nel senso letterale odierno, estravagante non di certo.
Non c’è sarabanda che abbia la disgrazia, o la fortuna, di mantenersi del tutto mesta e solenne, non c’è tono tragico che possa distendersi fino a trovare in sé la sua catarsi. Quando il demone che pulsa nel violinista reclama le sue ragioni per via di notine aggiunte non c’è scampo; quando invece Montanari ritiene che, anche in presenza di un andamento non molto mosso, ci si possa accontentare delle sole note scritte, vengono fuori i momenti più suggestivi, e una sonata corelliana può diventare la fantasmagorica evocazione di un dramma barocco. Proprio l’aspetto allusivamente teatrale, in Corelli come in Händel, sembra quello meglio attinto dal complesso; mentre il tessuto polifonico delle sonate bachiane consegna momenti meno convincenti, soffrendo anche a volte di squilibri dinamici tra il violino (troppo in luce) e il violoncello (troppo in ombra). Il concerto è nell’insieme godibile, ed anzi a tratti entusiasma il pubblico, ma l’Estravagante mostra ancora margini di ricerca nel senso di un approfondimento cui non faccia ostacolo la stessa maestria strumentale, e raggiunga un esito più coerente e culturalmente più centrato.
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